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Il tempo di una nuova immaginazione

Najla Kassab con Rola Sleiman è una delle prime due donne consacrate pastore nel Sinodo nazionale evangelico di Siria e Libano, chiesa che si struttura a partire da metà del XIX secolo. Di organizzazione presbiteriana, conta oggi circa 20.000 membri fra i due Stati, una trentina di pastori e una tradizionale attenzione all’educazione dei giovani e soprattutto delle giovani, che si sostanzia oggi in otto scuole di istruzione secondaria e numerose di istruzione primaria, per un totale di oltre 12.500 studenti, di qualsiasi provenienza religiosa.

A luglio 2017 Kassab è stata eletta presidente della Comunione mondiale di chiese riformate, unione di 230 chiese da 108 nazioni in rappresentanza di oltre 80 milioni di persone, anche in questo caso prima donna a ricoprire il ruolo.

Di fronte alla sua biografia non possiamo che partire, per questa intervista, dal discorso sulla parità di genere, che nelle chiese come nelle nostre società fatica ancora incredibilmente a venir considerato prioritario.

«La Comunione mondiale di chiese riformate ha eletto il suo Comitato esecutivo con metà uomini e metà donne, e tre dei quattro vicepresidenti sono donne: non possiamo parlare di giustizia se non partiamo da casa nostra, dai nostri esempi. Per secoli ci hanno in qualche maniera raccontato, fatto credere, che Dio ama gli uomini più delle donne. Ma ricordiamo che servono anche uomini coraggiosi per cambiare il dominio patriarcale; le nuove generazioni, i giovani pastori, sono una speranza per cambiare la mentalità generale».

– Educare al cambiamento quindi.

«Educazione è una delle parole chiave per la nostra Chiesa: a partire dalle metà del 1800 abbiamo aperto scuole per donne, e allora fu una rivoluzione. Il mondo si cura con la buona educazione; ma se solo i ricchi riescono a venire nelle nostre scuole la missione allora è zoppa, per questo abbiamo molti progetti di sostegno per garantire l’accesso a tutte e tutti. Se il mio vicino, la mia vicina di banco è una musulmana o una cristiana io apprendo anche da lei, cresco insieme a lei, e un domani sarà più difficile che questa sia mia nemica in quanto appartenente a una religione differente dalla mia, perché in realtà appartiene al mio stesso mondo. Il dialogo è vita e vivere insieme aiuta a superare pregiudizi. Purtroppo la grave crisi finanziaria che ha colpito il Paese riguarda anche i nostri insegnanti che, se spendono tutto lo stipendio in carburante e elettricità, sono menomati; per cui cerchiamo di aiutarli in ogni modo».

– Ecco, la situazione libanese, il suo Paese di origine, è di nuovo sulle pagine dei giornali di mezzo mondo. La crisi economica e politica rischia di innescare un nuovo odio religioso che sembrava superato, grazie ai delicati equilibri raggiunti negli ultimi decenni?

«La crisi ha lunghe radici e molti padri, ma certo la corruzione sistemica è una delle piaghe più significative, le cui ricadute danneggiano mortalmente l’intera società. Le politiche economiche, bancarie, di trasparenza hanno portato a profonde carenze che la popolazione comune fatica a comprendere. Il 55% dei libanesi è sotto la soglia di povertà, vive con meno di 15 dollari al giorno. Le scuole chiudono, gasolio e elettricità sono rarissimi e con costi alle stelle, tutti pensano solo ad andarsene, tutte le classi medio alte sono oramai all’estero, non si trovano medici, ingegneri, insegnanti. La crisi è colpa della corruzione, e la colpa è politica.

Io sono cresciuta con musulmani, senza problemi; solo dopo la guerra degli anni ’70-’80 abbiamo percepito questa separazione, è iniziata la campagna martellante in tal senso. Per noi che siamo cresciuti insieme non si pone nemmeno il problema del dialogo, è naturale, con i miei amici libanesi proveniamo da stesse culture, stesso background, e la religione non divide. Non dobbiamo lasciare prevalere discorsi di odio, serve un dialogo di vita. Con la guerra hanno usato la religione come elemento divisore ma non era vero, erano divisioni politiche vendute come religiose. Il dialogo religioso è fondamentale perché le religioni hanno un ruolo decisivo in molte società e mostrare ai loro popoli l’importanza dell’incontro è ancora un aspetto fondamentale. Questo esercizio quotidiano, che può magari a prima vista apparire faticoso ma che in realtà diventa naturale, è il miglior antidoto all’intolleranza».

– Le chiese, come il mondo intero, hanno fatto fronte a una drammatica situazione senza precedenti, una pandemia globale. Come hanno reagito, secondo lei?

«La pandemia ha scioccato tutti e per la prima volta tutto il mondo e tutte le religioni condividono la stessa pena. Abbiamo ragionato sul ruolo delle chiese: questo credo sia un tempo di crisi, ma anche di cambiamento, di kairòs; ci si può lamentare o programmare il futuro, cercare nuove vie. Abbiamo scoperto nuove connessioni, nuovi potenziali, è il tempo di una nuova immaginazione, un tempo da plasmare, dove possiamo metterci del nostro, come ogni volta che bisogna ricostruire qualcosa. Purtroppo non abbiamo le stesse velocità, anche nei vaccini: il coronavirus ha mostrato le disparità presenti nel mondo. Anche in questo caso le chiese devono essere un esempio, anche pratico, di equa distribuzione, di uguaglianza in generale. La giustizia economica è l’unica ricetta per superare paure e violenze».

– Se la situazione in Libano è molto preoccupante, nella Siria distrutta da dieci anni di guerra, è drammatica.

«In Siria il Covid è come se non ci fosse, di fronte a tutte le altre problematiche, e ciò ci preoccupa molto perché il virus corre e non vi è consapevolezza piena della pericolosità. E soprattutto non ci sono vaccini. Di fronte alle grandi criticità di questi anni la chiesa sta crescendo, sta vivendo un vero e proprio boom. Abbiamo imparato a essere chiesa di strada, a parlare meno e a vivere di più a fianco di chi ha bisogno di noi. La povertà è incredibile, la gente paga le conseguenze della guerra e delle sanzioni internazionali; stiamo perdendo insegnanti, medici, ma rimane fondamentale continuare a vivere lì perché non si perdano intere generazioni e si lasci il pallino della ripartenza in mano ad altri. Dobbiamo fare in fretta, mettere soldi nella reale ricostruzione, aiutare le persone a rimanere. Per fare ciò servono soldi e trasparenza nella loro gestione».

 

Immagine: Amy Eckert / Wcrc