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Mosè, mito di un uomo racconto di un maschio

Gabriele Bertin, pastore presso le chiese valdesi di Taranto, Grottaglie e Brindisi, ha appena pubblicato con Claudiana il libro “Mosè, mito di un uomo racconto di un maschio” in cui mette in relazione la ben conosciuta figura di Mosè, con i più recenti studi sul genere, in particolare i men’s studies.

La proposta è quella di rileggere la mascolinità partendo proprio dall’Antico Testamento per evidenziarne le criticità e andare incontro a una rottura con la visione monolitica del maschio, inattaccata e inalterata da troppo tempo.

Ne abbiamo parlato con l’autore, Gabriele Bertin.

Secondo l’indice, la figura di Mosè entra in scena circa a metà del libro, lasciando spazio a un’ampia riflessione sulla ricostruzione dell’identità maschile.

È partito prima da Mosè o prima dai men’s studies?

«Sono partito prima dai men’s studies, nel senso che quando ho dovuto proporre il tema per una tesi laurea magistrale alla Facoltà Valdese di Teologia, volevo riflettere sul concetto del maschile nell’Antico Testamento. Riflettendo col mio relatore di tesi abbiamo pensato che sarebbe stata troppo ampia e difficile quindi il suggerimento è stato quello di concentrarsi su una delle figure dell’Antico Testamento.

La prima scelta è stata il Re Davide, del quale c’erano anche una buona quantità di studi e di ricerche soprattutto nell’ambito della teologia omosessuale. Ho poi deciso di accogliere un altro suggerimento e di provare a approfondire la figura di Mosè. Questo è il motivo per cui ho deciso di concentrarmi su questo personaggio centrale, conosciuto anche molto bene, che però arriva successivamente nel libro per poter fare una bella introduzione ai men’s studies, alla loro genesi, al loro apporto in ambito teologico, e solo dopo applicarmi allo studio di alcuni testi che riguardano Mosè»

Per chi non avesse mai sentito nominare i men’s studies, come si evolve questo concetto di maschile nella tua ricerca?

«Io mi appoggio fortemente a un’opera di una scrittrice australiana, Raewyn Connell, che per prima, nel 1995, ha proposto un ampio studio sulle maschilità. La sua tesi è proprio quella che “maschile” è in realtà una parola plurale nel senso che si sviluppano diversi modelli di maschilità in base ai soggetti con cui ci si relazione. Lei fa una categorizzazione di questi tipi di maschilità e io parto da questo suo assunto, che poi è stato ripreso anche da tanti altri studiosi e studiose nel corso della storia. Diciamo che l’idea di base dei men’s studies è, in un certo senso, accogliere la critica che è stata fatta negli anni dal mondo delle donne, dalle teologie femministe e dai movimenti femministi in generale, sulla parzialità della visione maschile che è sempre stata vista come globalizzante e dominante e non ha mai lasciato spazio ad altre soggettività. È interessante riflettere sulla parzialità proprio per imparare anche a lavorare su di sé, sul proprio essere maschi oggi, cosa vuol dire, come ci si relaziona tra maschilità ma anche tra altre soggettività».

Poi si arriva al capitolo: “L’approccio queer al corpo di Mosè”. In che senso?

«Qui c’è un’altra autrice alla quale devo tanto per la mia tesi di laurea, che in un suo saggio propone una lettura queer delle figure dei profeti: la sua tesi dice che la chiamata profetica è qualcosa che crea una sorta di terremoto nelle vite degli uomini (i profeti sono praticamente tutti uomin). Si tratta di un terremoto nella loro esistenza ma anche nel loro corpo, perché la chiamata porta a metter in gioco anche la propria corporeità, a farle subire delle variazioni, anche come testimonianza della chiamata divina. L’approccio queer è qualcosa che consente di staccarsi ancora una volta da quell’idea del maschile come monolitica e inscalfibile, ma che invece, proprio a partire dal corpo che è il primo passaggio con cui entriamo in relazione col mondo e gli uni con le altre, diventa anche un luogo che subisce trasformazioni e che può portare delle modifiche sostanziali nel proprio percepirsi».

Un’altra riflessione viene dalla sezione “Teologia e maschile”, che senza pensarci sembrano aspetti inseparabili per quanto la nostra immaginazione in merito è stata formata.

Per un teologo questi due concetti sono davvero inseparabili?

«Assolutamente no. Per quanto mi riguarda, da pastore, penso che bisogni continuare a trovare dei modi per riflettere su come cercare di scollare queste due parole; siamo stati abituati a vederli come inseparabili perché per moltissimi anni, la teologia, la chiesa, la spiritualità, la liturgia, il pensare Dio è stato qualcosa che facevano solo i maschi. Su questo, è grazie alla riflessione delle donne che hanno iniziato invece a portare un loro contributo, che si è iniziato a riflettere che tutto quello che riguardava la teologia poteva essere fatto anche da un punto di vista diverso da quello maschile. Che poi, maschile di un certo tipo, tendenzialmente di un uomo bianco occidentale. Questo è quello che anche le teologie afroamericane portano: mettere in discussione quell’assolutismo del maschile che invece assoluto non è per niente».