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«Ci adattiamo bene alle mode, perché non alla liturgia?»

Dal 2017, il pastore Espoir Adadzi, della Chiesa evangelica presbiteriana del Togo, si trova in servizio nella chiesa protestante di Ginevra, con la “missione” di osservare le realtà delle chiese svizzere e i loro rapporti con le comunità immigrate. Adadzi è infatti è uno dei cinque inviati” della Cevaa, Comunità di chiese in missione di cui la Chiesa valdese è membro fondatore, peraltro riunita in questi giorni (4-8 ottobre) in assemblea generale, per la prima volta nella sua storia (nel cinquantenario dalla nascita) in modalità online in collegamento da Montpellier.

L’obiettivo degli (e delle) “envoyés” è di portare il proprio sguardo in contesti ecclesiastici e culturali molto diversi dal loro, cercando di coglierne le sfide e riportare all’interno della Comunità le loro esperienze.

Il pastore Adadzi lo ha fatto innanzitutto in un libro, spiegando perché il futuro del cristianesimo del “Nord” è aprirsi alla multiculturalità con il “Sud” del mondo. Il saggio pubblicato dalle edizioni Opec (qui la presentazione) con il titolo Interculturalité en église. Témoignage et proposition d’un envoyé du Sud, getta uno sguardo inedito sulla realtà delle chiese svizzere, da una prospettiva capovolta rispetto a quella a cui siamo abituati.

Il libro non è semplicemente un’”indagine” ma un racconto di vita vissuta, dagli elementi più quotidiani: fare i conti con un clima diverso, ambientarsi (con la famiglia) nella società svizzera, un percorso fatto di «shock e momenti di meraviglia». Il suo sguardo si posa poi sui momenti della vita della chiesa, in cui la sfida dell’interculturalità si fa più impegnativa: i dibattiti teologici in corso, il culto e la preghiera, con alcuni suggerimenti per realizzare un’interculturalità effettiva: le cerimonie per accogliere un nuovo nato o accompagnare una persona da poco rimasta vedova, o uscita di prigione, o entrata in pensione.

Di fronte agli interrogativi su quale impatto avrà questo libro sulla chiesa ginevrina, sugli scambi interculturali e sul “fare chiesa” in una situazione di migrazione e di diversità, qualche risposta arriva nell’intervista realizzata da Marie Destraz per Réformés (qui l’articolo) in cui si dice chiaramente che l’interculturalità è la condizione per il futuro del cristianesimo in Occidente:

«La società occidentale è plurale, non possiamo ignorarlo, e questa realtà richiede un adattamento. “Se non prendiamo il cambiamento per mano, ci prenderà per il collo”, diceva Winston Churchill. Se il cristianesimo conosce un rallentamento in Europa, si diversifica con la migrazione. (…) Le chiese storiche coesistono con le comunità nate dall’immigrazione, tuttavia il riconoscimento astratto dell’esistenza di culture diverse non è sufficiente e non permette l’integrazione.

L’interculturalità definisce l’interazione orizzontale fra diverse culture, favorendo l’integrazione e la convivialità fra le persone. Quando è ecclesiale, indica l’accoglienza reciproca, l’accettazione di diverse comunità o chiese con origini e orientamenti teologici diversi».

Questo può esprimersi anche nelle cose apparentemente più banali come “prestare” i propri luoghi di culto: per il pastore Adadzi, «aprire la propria intimità ecclesiale è già dimostrare ospitalità, e non è sempre semplice».

Ci vogliono pazienza e impegno, «ma anche un quadro in cui ammettere gli errori commessi e porvi rimedio»: pur essendo accomunati dalla stessa fede, «le diverse correnti e interpretazioni teologiche» fanno sì che «ciò che ci avvicina, la Bibbia e Cristo, è anche ciò che ci divide».

Gli “autoctoni”, osserva Adadzi, pur essendo incuriositi dall’aspetto “esotico” delle celebrazioni, rimproverano un eccessivo letteralismo alle comunità alloctone, le quali dal canto loro pensano a volte che le chiese svizzere siano «spiritualmente morte o che debbano essere rivitalizzate, ri-evangelizzate. Ma tutto questo non favorisce l’interculturalità. La volontà di comunicare con semplicità e umiltà, poi di incontrarsi, sono i primi passi. La tolleranza dottrinale e teologica, la riconciliazione sulle rigidità tradizionali delle nostre posizioni teologiche o spirituali e un piccolo compromesso che costituiscono un buon punto di partenza».

L’invito è quindi a «uscire dalla propria zona di comfort», cambiare le proprie abitudini pur senza cancellare le proprie particolarità, d’altra parte, commenta il pastore «ci adattiamo bene alle mode, perché non alla liturgia?», e questo invito è rivolto a entrambe le componenti, autoctone e immigrate: abituarsi all’organo o alle percussioni, al silenzio o alle musiche vivaci, è una sfida per tutti.

Entrambi hanno qualcosa da imparare, dice il pastore togolese: «Se le chiese del Sud possono portare la loro esperienza di fede, il Nord può ancora fare missione, in termini di governance e di orizzontalità delle relazioni. Del resto, se nell’Africa sub-sahariana non prendiamo di petto il dibattito sulle questioni etiche (omosessualità, Pma…) o sulla gestione efficace delle risorse, prevedo uno scontro fra Nord e Sud. Bisogna dunque andare verso il dialogo, per offrire una testimonianza cristiana comune».

Si può parlare di «salvezza grazie alle migrazioni»? chiede la giornalista. È vero solo in parte, risponde il pastore: «Alcuni cristiani occidentali accettano il loro destino e la fine dell’istituzione in Europa (…) altri pensano che Dio non può fallire. Accettiamo dunque cristiani diversi, accogliamoli per la continuità della fede e facciamo Chiesa insieme, a ogni costo. Una tale boccata d’ossigeno assomiglia, in effetti, a una forma di salvezza attraverso la migrazione».