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L’amore di Cristo muove il mondo

Padre Ioan Sauca della Chiesa ortodossa rumena, già professore e direttore di quel laboratorio del dialogo fra religioni che è l’Istituto del Consiglio ecumenico delle chiese (Cec) a Bossey in Svizzera, dal 1° aprile 2020 è segretario generale ad interim del Cec e lo resterà almeno fino al settembre del 2022, data della prossima assemblea che si terrà a Karlsruhe, con un anno di ritardo causa pandemia. Lo incontriamo in una pausa dei lavori del recente forum interreligioso di Bologna in compagnia dell’avvocato australiano Peter Prove, luterano, dal 2014 direttore della Commissione Cec per gli Affari internazionali, figura operativa sul campo, impegnato a tenere in rete le tante anime che compongono il Consiglio ecumenico, 349 chiese in 110 Paesi in rappresentanza di oltre mezzo miliardo di fedeli.

Padre Sauca, dopo una vita spesa per e nel Consiglio ecumenico, ne è diventato massimo rappresentante in uno dei periodi più complicati per l’intera umanità, segnata dalla pandemia. Come ha visto reagire le chiese a questa sfida così provante?

«Quello che abbiamo visto a Ginevra in questo periodo non l’avevamo mai visto prima: dalle chiese abbiamo avuto molte richieste di studi biblici e risorse spirituali. In tempo di crisi nasce il desiderio di ritornare alle radici, anche della nostra fede e della nostra spiritualità».

Un senso di unione più forte dunque, che ci ha stretti gli uni agli altri, a dispetto della separazione fisica; «ma ci sono anche molti effetti negativi – interviene Prove -, in particolare nell’ambito dei percorsi di costruzione di pace, il mio campo di lavoro, perché la distanza spesso rende impossibile un dialogo schietto e sincero. Nel complesso però la pandemia ci aiutato a vedere le nostre comuni fragilità e che davvero abbiamo bisogno gli uni degli altri, di scambiarci esperienze, testimonianze di fede ma anche responsabilità».

Quali le principali sfide per la prossima assemblea del Consiglio ecumenico?

Sauca: «Il tema dell’assemblea sarà “L’amore di Cristo muove il mondo verso la riconciliazione e l’unità”. Ci siamo chiesti come far sì che questo tema riguardasse non soltanto i cristiani ma tutto il Creato e le persone di altre fedi. Parlando dell’amore di Cristo, parliamo dell’amore di Dio che si è manifestato in Gesù Cristo e da lui all’umanità e al Creato. La comune testimonianza cristiana da un lato e i valori comuni che ci uniscono tutte e tutti su questa Terra al di là dell’appartenenza religiosa dall’altra saranno parte fondante dell’assemblea».

Il dialogo ecumenico, che appare a volte in uno stallo di difficile soluzione sul piano teologico, trova nella sfida ambientale un terreno di concreto impegno comune. Ma questo è un lavoro che fanno già bene molte Ong; qual è dunque la differenza fra loro e il contributo che possono invece fornire le chiese?

Sauca «La nostra assemblea 2022 si terrà in settembre e il 1° settembre è la giornata dedicata alla salvaguardia del Creato; la nostra impostazione incrocerà dunque l’impegno concreto alla preghiera, e l’analisi passerà attraverso il testo biblico e la riflessione teologica, nostre “pezze d’appoggio” per testimoniare attraverso la fede l’attenzione nei confronti del pianeta. Le chiese hanno una capacità di penetrazione notevole nelle società, sono una voce ascoltata, e devono dunque utilizzare al meglio questa dote veicolando le buone pratiche che ciascuno può mettere in atto per svolgere la propria parte nel limitare la propria impronta ecologica, la traccia del suo passaggio su questa Terra. Nel chiedere alle chiese di essere parte attiva per la difesa dell’ambiente si tratterà quindi di interpellare la nostra fede in quella che è una sfida anche spirituale. Per noi non è niente di nuovo. Il Nuovo Testamento ci dice “Nutrite gli affamati”, questo è il cuore del messaggio evangelico; non è quindi una scelta nuova quella di unirci agli altri nella battaglia contro il cambiamento climatico o aiutare gli affamati ma significa riscoprire le radici della nostra spiritualità, ribadire la nostra identità di cristiani».

Ci sono ancora troppi morti in nome di Dio nel mondo. Cosa possono dire come chiese?

Prove «Ho sentito spesso Frank Chikane, che ha avuto un ruolo di leader nel combattere l’apartheid in Sudafrica, dire che coloro di cui aveva più paura erano le persone religiose, perché se si è convinti che sia Dio a spingerci ad uccidere, allora siamo disposti a farlo, a dispetto di qualsiasi legge o principio etico. Racconta un aneddoto di quando era in prigione durante l’apartheid: chi lo torturava era membro della sua stessa chiesa ed entrambi erano convinti di seguire Dio. Il pastore Chikane su questa questione suggerisce di pensare di nuovo che cosa significa essere cristiani e che cosa siamo chiamati a fare nel mondo, e di richiamare le chiese al significato di questa chiamata. Penso anche che una risposta alla violenza ispirata dalla religione sia la cooperazione e il dialogo per stabilire una migliore comprensione reciproca e ridurre l’idea dell’altro come nemico trovando basi comuni. Un esempio: anni fa il Cec insieme mise in piedi un progetto in Egitto in alcuni villaggi dove c’erano scontri molto forti fra musulmani e cristiani, prese giovani a lavorare insieme per rispondere alla crisi occupazionale e ciò portò a un calo drastico delle tensioni. Lo stesso istituto di Bossey che siede attorno a un tavolo le nuove generazioni di varie religioni lavora proprio nella direzione di agevolare l’incontro, mai lo scontro».

Sauca «Fare cose insieme è importante ma a volte il fondamentalismo viene dalle comunità religiose e quello a cui stiamo assistendo oggi fra i giovani è proprio una crescita del fondamentalismo in certe parti del mondo. Quindi la domanda è: come educhiamo i giovani? Questa è una grande sfida anche per le chiese, per questo prepariamo i nostri ragazzi all’ecumenismo e al rapporto fra le fedi. Cerchiamo di espandere questa idea. Quando Ahmad Al- Tayyib, grand imam di al-Azhar ha visitato Ginevra abbiamo sviluppato un comune programma di studio insieme con l’Egitto. Ma abbiamo in corso anche una partnership con l’Iran, abbiamo forti relazioni con le comunità ebraiche, buddiste e indù. La strada è segnata e la chiave per risolvere fondamentalismo e intolleranza è la formazione».