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Accoglienza, gioco di squadra

Se c’è un popolo che ha ben chiaro che cosa rappresentino i flussi migratori con i loro carichi di speranza e, contemporaneamente, di dolore, di paura e di coraggio, beh quel popolo siamo noi.

Noi italiani, che fra il 1861 e gli ultimi anni del ‘900 abbiamo visto partire quasi venti milioni di nostri connazionali che non hanno mai più fatto ritorno nel nostro Paese. Noi italiani, che abbiamo scritta nel Dna una vocazione tanto al muoverci quanto all’accogliere, frutto probabilmente del nostro aver ricevuto in dono questa nostra terra proiettata nel Mediterraneo, questo meraviglioso molo naturale che fa venire il mal di testa ai profeti dei “porti chiusi”. Come si fanno a chiudere 8.000 km di costa? Come si fa a chiudere il cuore a un popolo che sa meglio di tutti che i sistemi chiusi (in economia, in natura, in fisica, in chimica) sono destinati a morire e che sono le contaminazioni a garantire la prosecuzione della vita? «Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno, come è noto, se ha da essere fertile. Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape» diceva Primo Levi nel suo Sistema periodico. Certo queste impurezze, c’è chi le racconta come minacciose, pericolose. È l’eterno iato fra i difensori delle identità pure e coloro che sentono di appartenere a un’unica razza, quella umana. E gli umani, lo hanno sempre fatto, si muovono.

Il sociologo algerino Abdelmalek Sayad definiva i fenomeni migratori un “fatto sociale totale” perché implicano necessarie riflessioni sui motivi che spingono a lasciare una terra, sui percorsi e sulle rotte (di geografia e di vita) dei migranti e sulle responsabilità e sulle scelte delle società di arrivo. Un fatto sociale totale di cui stiamo vivendo un’ulteriore riproposizione, per motivi particolarmente drammatici. Da poco più di un mese il ritorno al potere del regime talebano in Afghanistan ha rimesso in moto migliaia di umani in fuga dall’azzeramento dei diritti civili, dal fondamentalismo criminale, dall’oscurantismo. Mi è capitato, in maniera rocambolesca, di occuparmi della “esfiltrazione” di alcune atlete, delle loro famiglie e di un gruppo di cooperanti di una onlus che da anni lavora in Afghanistan. Tutte persone in imminente pericolo di vita per il semplice fatto di aver fatto sport essendo donna o di aver collaborato in progetti di solidarietà con degli occidentali. Non è importante scendere nei dettagli di un’operazione per me incredibile, ma ha molto senso porsi delle domande, come sempre occorre fare quando ti capita qualcosa di così grande, così drammaticamente impattante sulle vite tua e di tante persone.

La prima domanda che mi sono posto è stata, molto semplicemente, il capire come sia stato possibile riuscirci. Non ho risposte, so soltanto che non è stato un miracolo, ma il risultato di un gioco di squadra che ha portato persone, che a tutt’oggi non si sono mai viste dal vivo, a collaborare con un continuo scambio di dati, posizioni, fra l’Italia e l’Afghanistan, condividendo informazioni, dimostrando un’incondizionata fiducia reciproca e regalandosi sostegno morale senza smettere mai neanche per un minuto, notte e giorno, fino al risultato finale. Quando ci interroghiamo su come sia possibile innescare queste dinamiche di squadra basterebbe riflettere su un solo aspetto: quando la posta in palio è così alta, gruppi di persone si trasformano in squadre in maniera quasi naturale. E credo che questo sia un bel segnale di speranza.

La seconda domanda ha a che fare con il nostro tempo e con gli strumenti che hanno permesso di salvarsi e salvare la vita: smartphone capaci di condividere posizioni, video, fotografie, audio. È un paradosso e non ne ho ancora realizzato bene il significato, ma in questo caso un contatto, una connessione attiva, una batteria carica, un power bank in più in tasca hanno fatto la differenza nel distinguere fra i sommersi e i salvati. È un fatto, punto. Bisogna uscire dal giudizio e considerare come tutta questa vicenda, soltanto quindici anni fa, avrebbe condotto verso un finale completamente diverso.

Infine la terza, complicata e dolorosa domanda: ciò a cui stiamo assistendo in Afghanistan è una specie di Shoah dei tempi moderni, a cui è possibile essere spettatori in diretta, essendone aggiornati in tempo reale? Beh, ricevo ogni giorno immagini, fotografie, audio che testimoniano di rastrellamenti porta a porta, di persone minacciate, pestate, di liste di ricercati che costringono a cambiare rifugio ogni giorno, che mettono a rischio conoscenti, famigliari, amici. Ogni tragedia ha, purtroppo, una propria storia e questa è una tragedia dei giorni nostri; il passato tuttavia ci ha insegnato che non è più possibile restare a guardare inermi al destino altrui.