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Prediche, divulgazione e pregiudizio

Il banco di prova del profilo, della consistenza e della tenuta delle posizioni di autocritica e di revisione che la maggior parte delle chiese cristiane hanno assunto nei confronti dell’ebraismo a partire dal secondo dopoguerra e che hanno formulato in importanti documenti dottrinali è la quotidianità del discorso cristiano. È cioè nella catechesi, nella predicazione e negli interventi destinati al largo pubblico che si vede se come il discorso è cambiato rispetto a secoli e secoli di visioni polemiche. La sfida non è da poco e la posta in gioco è elevata: come per secoli alcuni pregiudizi hanno fatto parte della cultura e dell’immaginario del “cristiano qualunque”, ora le nuove prospettive, quelle del superamento dell’antigiudaismo tradizionale, dovrebbero radicarsi non soltanto tra gli addetti ai lavori o fra chi ha un particolare interesse per l’ebraismo e per Israele, ma fra tutti i cristiani, radicandosi al centro del loro “discorso” e diventando coscienza comune.

Eppure, il “vecchio” continua a riaffacciarsi, magari in modo irriflessivo. Un caso recente ha suscitato giustificate reazioni da parte ebraica. Si tratta di un articolo scritto da Antonio Spadaro direttore di Civiltà Cattolica, l’autorevole quindicinale dei Gesuiti, su Il fatto quotidiano del 29 agosto scorso. L’articolo è accessibile on line, ed è bene leggerlo. È un breve commento a Marco 7, 1-23, uno dei brani in cui Gesù appare discutere o polemizzare con altri esponenti dell’ebraismo del suo tempo, a cui è stato attribuito l’infelice titolo La “religione del cuore” è l’opposto della “dottrina dei farisei”.

Nella parafrasi con cui l’autore attualizza il testo, i farisei sono raffigurati come esponenti di un ordine costituito, «quello delle formalità, della banalità che riduce la trascendenza a fenomeno esoterico o esteriore. I farisei, infatti, e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi». La pratica ebraica di lavarsi le mani prima dei pasti viene letta come esempio di «pie pratiche […], cose esteriori che nulla hanno a che vedere col cuore, col senso, col gusto della vera santità. L’essere umano, infatti, sovrastato dagli obblighi formali, non ha più il tempo di leggere il suo cuore e di fargli esprimere l’amore per Dio. Tutto si riduce a moine».

L’uditore non viene portato a interrogarsi sulla propria religiosità e pietà, ma è coinvolto in una requisitoria contro un’immagine dei “Giudei”. L’ebraismo successivo alla distruzione del tempio nel 70 della nostra era è certamente l’erede consapevole e vivace del grande movimento dei farisei, ma questa storia viene in un solo passaggio appiattita su una visione stereotipata dei farisei, costruita a partire dai testi del Vangeli letti astoricamente. Lo stigma imposto a questi farisei viene trasferito a “tutti i Giudei”. Riaffiora così, con linguaggio divulgativo, magari inconsapevolmente, la tradizionale visione cristiana dell’ebraismo come “negativo” della verità cristiana; il “loro errore” che attesta la “nostra verità”.

Una sola frase in tutto l’articolo non ha di mira gli altri: «Quanta gente anche oggi è legata a pratiche nelle quali la fede è delegata al merletto ben cucito, alla formula incomprensibile o al gesto perfetto!». Da un lato, un gruppo identificato con precisione, dai farisei ai “Giudei” di oggi, dall’altro «quanta gente anche oggi…». Il lettore è coinvolto nella stigmatizzazione della ipocrisia attribuita ad altri, e non compare la vera domanda: che cosa abbiamo fatto e che cosa facciamo noi cristiani dell’insegnamento di Gesù sul male che viene da dentro di noi, di noi appunto.

I brani polemici dei Vangeli e di tutto il Nuovo Testamento non possono essere eliminati o elusi; anche i Vangeli – come tutte le fonti e i “classici” – devono essere letti, studiati e interpretati così come sono. Anche nelle prediche e nella divulgazione, però, li dobbiamo affrontare con un approccio storico. La tentazione che minaccia ogni lettura dei testi è quella di “attualizzarli”, saltando i millenni che ci separano dalla loro origine e ignorando il contesto in cui sono nati, quasi fossero parole senza tempo che ci parlano con immediatezza. I testi vanno letti nel loro contesto, quello del vivace, articolato, e anche polemico, ebraismo del primo secolo della nostra era e delle sue appassionate discussioni. Con il passare del tempo, sempre più i Vangeli sono stati letti senza consapevolezza del loro contesto e poi, da parte di un cristianesimo che si diffondeva e infine si affermava come religione maggioritaria, in blocco contrapposti alla permanente e viva alterità ebraica che tanto lo inquietava. La consapevolezza di questa storia e delle nefaste conseguenze dei suoi discorsi non deve mai venire meno, nemmeno – anzi, tanto meno – quando si scrive una predica o si fa opera di divulgazione.