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Afghanistan, la Diaconia valdese accoglie

Le scene strazianti all’aeroporto di Kabul dei bambini lanciati oltre le reti da padri e madri disperati, fra le braccia dei militari, interrogano tutto l’Occidente. Di fronte all’ennesimo disastro umanitario si è levato un vento di solidarietà internazionale, nel tentativo di portare in salvo almeno una parte di quell’umanità sconvolta e di recuperare, a ovest del Bosforo, un minimo di credibilità internazionale. L’Italia ha fatto la sua parte, stipando su voli militari alcuni fra coloro che in questi anni hanno collaborato con i comparti militari o con le organizzazioni nazionali, ora in pericolo di fronte al cieco odio talebano.

«Come Diaconia valdese siamo stati contattati dalla Prefettura di Torino e dal servizio centrale che gestisce i Sai presenti qui in zona nel pinerolese (provincia di Torino), per accogliere alcune delle persone in fuga dall’Afghanistan – racconta Loretta Malan, responsabile dei servizi di inclusione della Diaconia –; abbiamo dato la nostra disponibilità e il 2 settembre ci sono stati i primi arrivi». Sai è un acronimo che sta per Sistema di accoglienza e integrazione, introdotto nell’autunno 2020, che ripristina in parte le modalità di ospitalità diffusa, cancellate dai decreti Salvini.

Si tratta di una porzione del primo gruppo giunto in Italia, il 20 agosto. 13 persone al momento sono ospitate fra la val Pellice e Pinerolo e due nuclei familiari a Torino. «Siamo pronti a replicare in altre aree d’Italia dove già ci troviamo a operare», precisa Malan. «Dobbiamo utilizzare la massima delicatezza perché parte delle loro famiglie sono rimaste in Afghanistan e c’è pericolo concreto di ritorsione dei Talebani tornati al potere».

Il recente Sinodo delle chiese metodiste e valdesi ha, con vari atti, espresso tutto il sostegno ad azioni volte ad alleviare la sofferenza della popolazione afghana, con i corridoi umanitari, con la destinazione di quote del proprio Otto per mille all’emergenza in corso, nello spronare la politica a farsi carico della questione. «È un bellissimo segnale questa disponibilità a incentivare il lavoro che stiamo facendo, ci dà molta forza – continua Malan –. Anche perché i movimenti migratori non si fermano e anzi, data la situazione mondiale, fra pandemia e crisi umanitarie, sono sempre di più le persone che si spostano. Tanto vale smettere di trattare il tema come fosse sempre una grande emergenza; è tempo piuttosto di iniziare a metter in atto progetti strutturati, a livello italiano ma soprattutto continentale, con politiche condivise per gestire le richieste di asilo delle persone che si affacciano alle porte d’Europa».

Come accennato, ritorna il modello dell’accoglienza diffusa, stigmatizzato negli anni in cui a guidare il ministero degli Interni era Matteo Salvini. Un ritorno al passato, con una sistemazione dignitosa e la volontà di evitare i mega-assembramenti: «Come Diaconia riteniamo vincente questa soluzione. Le persone sono accolte in appartamenti: se sono singoli creiamo piccoli gruppi, altrimenti ogni famiglia ha un alloggio dedicato».

Il grado di funzionalità di questo sistema è però ancora distante dai parametri di un tempo non troppo lontano: «Sicuramente ci sono segnali positivi – prosegue Malan – ma c’è ancora molto da lavorare; siamo ancora lontani dall’accoglienza strutturata degli scorsi anni, soprattutto dal punto di vista della sostenibilità dei progetti. Almeno è incoraggiante che si stia ragionando per riportare l’integrazione a livelli dignitosi. Il fatto che in questa circostanza la Prefettura abbia chiesto la sistemazione in appartamenti è un segnale positivo. È solo con un’accoglienza inclusiva, con veri percorsi di integrazione sociale, che si creano i presupposti perché queste persone possano trovare serenità, rendersi autonome e contribuire alla vita sociale del loro nuovo paese».

Le ultime parole sono dedicate ai tanti, troppi, che su quei voli della speranza non sono saliti: «Il nostro pensiero va a chi ancora si trova bloccato e che sappiamo in difficoltà e pericolo. Siamo stati contattati da diversi afghani che vivono in Italia, che hanno chiesto in questi anni ricongiungimenti con i loro familiari. A oggi ogni procedura è sospesa; allo stesso modo abbiamo notizie di tante studentesse e studenti che non riescono a partire per venire a svolgere l’anno scolastico nel nostro Paese. Deve rimanere alta l’attenzione per tutti coloro che sono ancora in pericolo. Continueremo a lavorare per capire se in qualche modo si può fare qualcosa a riguardo».