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La lezione dell’Afghanistan

Grazie a quanti fra diplomatici, carabinieri, paracadutisti, piloti hanno lavorato duramente, correndo gravi rischi per portare fuori da Kabul i cittadini italiani e quasi 5000 profughi. È stata comunque una luce in una vicenda così buia e triste e che è lontana dall’essere terminata in tutta la sua drammaticità. Il Sinodo valdese non ha mancato di affrontarla anche in relazione al documento per i Corridoi umanitari in Afghanistan tempestivamente pubblicato dalla moderatora Alessandra Trotta con il presidente della Fcei Luca M. Negro e il presidente della Comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo. L’otto per mille della Chiesa valdese peraltro sosteneva già dei progetti in Afghanistan, in particolare per le donne, che ci auguriamo possano in qualche modo continuare. I valdesi e metodisti e gli evangelici italiani non mancheranno di mobilitarsi sul tema dei profughi e dei rifugiati, sul loro esodo da un lato, sulla loro integrazione dall’altro.

Nel contempo dobbiamo cominciare anche ad analizzare quello che è un avvenimento di portata certamente epocale: gli Usa e gli alleati Nato hanno subito una sconfitta, a parte gli aspetti militari, soprattutto politica. Nessun’altra iniziativa militare del futuro potrà prescindere dalla lezione di quello che è avvenuto e sta avvenendo in Afghanistan. La responsabilità prima è dell’amministrazione Trump. Lo snodo politico è infatti il 29 febbraio 2020, data degli “accordi di Doha” sul ritiro delle truppe americane (e quindi degli alleati) firmati nella capitale del Qatar tra Mike Pompeo, segretario di Stato dell’amministrazione Trump, il mullah Abdul Ghani Baradar, considerato allora il “numero due” dei Talebani, e l’inviato dell’Onu, Zalmay Mamozy Khalilzad.

Il governo afghano dell’epoca di Ashraf Ghani, era completamente tagliato fuori. Come si poteva pensare che in tali condizioni quel governo avrebbe potuto resistere tanto da permettere un ordinato rientro dei civili statunitensi ed europei nonché dei loro collaboratori afghani e di quanti si erano impegnati nello stesso Afghanistan per una società diversa da quella che i Talebani vogliono instaurare? E, difatti, Biden aveva ottenuto una dilazione del ritiro, inizialmente fissato per lo scorso maggio, fino ad agosto. Ma questo non cambiava la qualità delle condizioni politiche e dei problemi da risolvere. Prima si portano via i civili e, alla fine, i militari: questo è quanto andava fatto, pianificando un ordinato ritiro. Del resto gli Usa, alla fine, sono stati costretti a mandare 5000 marines all’aeroporto di Kabul, e così noi e gli altri alleati, sia pure in scala più piccola.

È una dura lezione che non va dimenticata per il futuro. Soprattutto da parte dell’Unione Europea, che deve far seguire a quanto fatto sul piano economico con il Next Generation, uno sviluppo della sua dimensione politica, anche nel campo della difesa. Speriamo naturalmente che i prossimi giorni non siano ancora più drammatici e operiamo comunque perché il problema afghano non appassisca nei cuori dell’opinione pubblica e nei radar delle forze politiche. È quello su cui conta chi vuole portare l’orologio della storia in Afghanistan indietro di venti anni. Mentre si tenta, allargando il discorso ai G20 e ai paesi confinanti, un’iniziativa politica per salvare il salvabile, sul piano più generale possiamo iniziare a formulare alcune riflessioni. L’occupazione militare di un paese da sola non può trasformarne l’assetto politico e la scala dei valori delle comunità interessate; per di più, Vietnam e Afghanistan dimostrano che gli occupanti non si sono dimostrati sufficientemente in grado di proteggere chi ha collaborato con loro dopo il ritiro delle loro truppe.

Ma il disperato esodo degli Afghani che non vogliono vivere sotto i Talebani e in particolare quanto stanno facendo le donne nella difesa dei loro diritti, in primo luogo di quello dell’istruzione, dimostrano che esiste anche un’universalità dei diritti civili e politici, nonché l’aspirazione a poterne usufruire. Se quindi da un lato democrazia e diritti civili non si esportano con le armi, dall’altro è inaccettabile l’idea che ci siano popoli, culture, comunità che siano a essi impermeabili. Sarebbe un atteggiamento improntato non al realismo, ma al cinismo. Il compito che ci aspetta allora è di testimoniare e di comunicare, con la cultura da un lato, con la concreta solidarietà dall’altro, proprio quei grandi valori di rispetto della persona umana e dei suoi diritti, universalmente validi, a cui l’Evangelo richiama in particolare noi credenti.