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Riapre i battenti il museo dedicato a Albert Schweitzer

Dopo tre anni di lavori, il museo Albert Schweitzer ha riaperto nel settembre 2020. Da maggio, dopo lo stop importo dalla pandemia, è di nuovo aperto al pubblico.

Siamo in Francia a Gunsbach nella valle del Munster, a pochi chilometri da Colmar e dal confine tedesco, i luoghi dove soggiornò il Premio Nobel per la Pace 1952 quando venne a ricaricare le batterie nella natia Alsazia.

La casa è oggi un museo moderno con un’estensione di 439 mq con vista sul giardino e sull’orto. Questa oculata scelta architettonica permette di coniugare un approccio intimo all’uomo nelle stanze della casa e un approccio museografico al suo lavoro e al suo patrimonio. A causa dell’epidemia, il museo non sarà ufficialmente aperto fino al 2022. Ma era già aperto al pubblico nel settembre 2020, poi i battenti sono stati chiusi a causa della crisi sanitaria. A maggio il museo ha potuto riaprire ai visitatori, in piccoli numeri e previa prenotazione obbligatoria. Possono finalmente scoprire una ricchissima collezione di oggetti e documenti che raramente erano stati mostrati al pubblico o catalogati.

L’intero seminterrato della casa e la parte esterna sono dedicati all’Africa e al Lambaréné. Nelle vetrine si possono vedere in particolare stetoscopi, strumenti chirurgici, speculum, ma anche tamponi e bende provenienti dall’ospedale del Gabon all’epoca in cui vi esercitava Albert Schweitzer. «È un’ex infermiera, membro di un’associazione per la storia della medicina, che si è offerta volontaria per identificare ed elencare gli oggetti – afferma Jenny Litzelmann, direttrice della Maison Albert Schweitzer- . Erano più o meno archiviati in scatole, ma non avevamo un catalogo».

Questi oggetti permettono di cogliere la visione della medicina del dottor Schweitzer, in particolare la sua preoccupazione, precoce per un praticante di quella generazione, dell’asepsi, il metodo preventivo delle infezioni, consistente nell’uso di strumenti e di materiali sterilizzati. Scopriamo anche i registri statistici, il primo strumento per monitorare le epidemie. Il museo ha voluto che anche i collaboratori africani ed europei dell’ospedale fossero ugualmente onorati. Allo stesso modo, la scenografia mette in evidenza anche un gran numero di figure femminili vicine ad Albert Schweitzer. Così, con il cappello coloniale lasciato durante una visita in Gabon da Antonia Brico, considerata la prima direttrice d’orchestra al mondo, scopriamo che Albert Schweitzer non ha mai smesso di incoraggiare la musicista nelle sue ambizioni. Si può visionare inoltre il documentario su Albert Schweitzer girato nel 1957 dall’americana Erika Anderson, che ha ricevuto l’Oscar per il miglior documentario, così come le sue fotografie tra cui magnifici ritratti della gente di Lambaréné.

Salendo in casa, dopo la cucina, la sala da pranzo e la sala della musica con il suo organo a pedali appositamente realizzato per resistere al clima tropicale, prendiamo tutta la misura, in ufficio, della notorietà internazionale, oggi un po’ dimenticata di Albert Schweitzer. Vengono infatti presentati una serie di ritratti di personalità con cui il medico alsaziano aveva mantenuto una corrispondenza o stretto forti amicizie: Albert Einstein, Martin Luther King, l’Abbé Pierre, Stephan Zweig, Eleanor Roosevelt, Karen Blixen, la regina Elisabetta del Belgio, con cui condivideva la passione per la musica e la biologa americana Rachel Carson, pioniera del movimento ambientalista.

Con quest’ultima stava probabilmente discutendo il suo concetto teologico centrale: l’etica del “rispetto della vita” a cui è dedicata l’ultima parte del museo. «Volevamo illustrare l’atemporalità di questo concetto», spiega Jenny Litzelmann. Abbiamo così cercato di rappresentare l’allargamento del cerchio della morale, così come concepito da Albert Schweitzer, che parte dal rispetto di sé a quello della natura e di tutte le forme di vita, che senza dubbio riecheggia le attuali preoccupazioni ecologiche». La messa in scena di oggetti e immagini con effetti speculari vuole rappresentare il cammino spirituale del pastore luterano segnato dagli orrori della Grande Guerra. «Per lui la prima guerra mondiale ha simboleggiato il declino della civiltà iniziato, secondo lui, nel secolo precedente», osserva la direttrice del museo. Credeva che una volta che l’uomo avesse acquisito la capacità di distruggere il suo ambiente, anche la civiltà fosse in pericolo di scomparire».