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L’Afghanistan, i musulmani italiani e le donne del G20

Un «porto» sicuro, l’unico, l’aeroporto di Kabul. Dentro le mura dell’area di volo, presidiate dai soldati americani, la speranza. Quella di poter sfuggire al regime talebano. Nell’area di volo alcuni bambini giocano con il microfono dell’alto parlante lasciato incustodito; mentre le donne, fiduciose, attendono l’imbarco verso la libertà, quella, ad esempio, di potersi vestire con i loro abiti migliori; gli uomini dentro quegli hangar caldi, quasi privi d’ossigeno, e nelle aree all’aperto circostanti, esprimono mestamente la loro fierezza per essere riusciti a mettere (quasi) in salvo le loro famiglie. Così raccontano la situazione che si vive nell’aeroporto di Kabul le cronache dei radio giornali trasmessi stamane. 

In quel porto franco aleggia però un’angoscia, quella di aver lasciato indietro qualcuno, di aver abbandonato i propri nonni, gli amici, i fratelli, le sorelle, nelle mani dli un regime dal doppio volto: quello «diplomatico» con le grandi potenze e quello violento e armato contro chiunque decida da rinnegarlo, di rifuggirlo, di scappare e di opporsi alla (millantata) omologazione religiosa, coranica. Usata strumentalmente dai fondamentalisti.

Sì, perché la fede è una cosa, la Scrittura un’altra, il fondamentalismo tutt’altra cosa.

In tutto questo caos, davvero poco comprensibile e nato dal ritiro statunitense dopo vent’anni di presenza su quel suolo occupato militarmente iniziato, si diceva, per combattere il «terrorismo islamico», il disimpegno delle truppe è apparso troppo repentino, anomalo, veloce, disorganizzato, quasi una fuga (o accordo tra le parti?) e soprattutto ha lasciato dietro di sé, sul quel territorio dapprima presidiato, molte, troppe armi leggere e pesanti, consegnate, di fatto, nelle mani della «pacifica» avanzata talebana.

Molti analisti azzardano ipotesi su questa ardita mossa di Biden (certo già prevista e voluta da Trump): strategie geopolitiche (ruoli di Cina e Russia) «giochi» legati alle politiche interne statunitensi.

Sullo «sfondo», come sempre, l’economia mondiale.

In tutto questo caos l’unica certezza è la sofferenza di una intera popolazione gia vessata da anni di instabilità: donne, bambini, società civile, attivisti, artisti, comici (come Nazar Mohammed, meglio conosciuto come Khasha Zwan, ucciso a Kandahar dopo che la città è caduta in mano ai fondamentalisti nel loro percorso verso Kabul), medici, malati.  

Oggi le donne del G20 si riuniscono in Italia, la «vetrina» è quella del W20; sembra un paradosso se si pensa all’Afghanistan, dove le donne sono invece costrette a nascondersi e a diventare «trasparenti»; a coprirsi il volto per non farsi riconoscere.

Un W20 probabilmente vissuto con imbarazzo per la situazione in corso, ma certamente non disattento alla tragedia e che dunque lancia il suo appello: «Aiuti, protezione e garanzia del rispetto dei diritti per le donne e i bambini rimasti in Afghanistan e un passaggio sicuro per chi sceglie di lasciare il paese», chiede l’engagement group ufficiale del G20 sulla parità di genere e empowerment femminile, ai leader dei paesi più industrializzati.

Anche l’islam italiano si esprime sulla vicenda Afghanistan. 

Una presa di distanza e di condanna (solo di una delle organizzazioni islamiche presenti in Italia) è giunta da parte della più ampia organizzazione islamica in Italia, l’Ucoii: l’Unione delle comunità islamiche in Italia.

Il presidente Yassine Lafram ha dichiarato: «Bestemmia Dio chi calpesta i diritti umani per imporre il proprio domino. La religione è un fattore di stabilità, non può essere terrore, sangue e atrocità. I talebani strumentalizzano l’Islam. Collaboriamo con il governo per i corridoi umanitari».

L’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia, si legge ancora, «Nel seguire l’evoluzione della tragica situazione in Afghanistan, si unisce alla linea del nostro Governo dando disponibilità di supporto sul territorio nazionale per l’accoglienza di eventuali profughi afghani. In particolare, l’Ucoii mette a disposizione delle Prefetture le sedi dei propri centri e operatori per l’orientamento e la mediazione culturale dedicati a chi potrebbe trovare rifugio sul suolo italiano».

 

Foto di USAID da Pixnio