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Donne e lavoro: le sfide di una società in trasformazione

È ormai una tradizione che il sabato “presinodale” sia dedicato agli incontri che vedono protagoniste le donne e i giovani. Questa tradizione si è interrotta lo scorso anno a causa del Covid-19, sebbene non siano mancati i momenti di dibattito: due nella settimana “Generazioni e rigenerazioni”, dedicati alla salute e alla violenza contro le donne, e diversi online nel corso dell’anno, ben seguiti dal pubblico, segno di un interesse per le tematiche di volta in volta trattate: dallo studio delle figure bibliche femminili in un’ottica nuova, allo sfruttamento sessuale delle donne, fino al lavoro, tema scelto per questo Presinodo 2021 che ha dovuto tenersi online.

Sotto il titolo “Contrappunto: donne e lavoro, uno sguardo altro su economia, società e politica. Donne protestanti di fronte alle sfide della società in trasformazione”, una cinquantina di persone (su piattaforma Zoom o seguendo la diretta Facebook, entrambe curate da Riforma) ha riflettuto sugli spunti lanciati dalle relatrici e dalla conduttrice dell’incontro, Doriana Giudici, esperta di diritti delle donne.

Giudici ha esordito con alcuni dati, il tasso di occupazione femminile in Italia fermo al 48,5% e i 402.000 posti di lavoro persi tra aprile e settembre 2020, nel periodo peggiore della pandemia, e ha lanciato una domanda: la nostra democrazia è ancora fondata sul lavoro?

Ricordando i grandi diritti conquistati intorno al ’68 (senza dimenticare le sofferenze dietro ad alcuni, come aborto e divorzio), citando tre esempi, la bolla di accompagnamento per il lavoro a domicilio, il licenziamento in bianco, il caporalato, ha osservato che «oggi si tende a togliere, indebolire o non gestire queste conquiste».

Nel primo giro di interventi è stata quindi esaminata la situazione attuale, con toni più pessimistici da parte di Antonella Visintin, coordinatrice della Commissione Globalizzazione e Ambiente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia e attiva nella rete dellAzione delle chiese per il lavoro e la vita (Call), promossa dalla Conferenza delle chiese europee (Kek), che ha detto senza mezzi termini: «Lo smartworking? sarebbe più corretto chiamarlo precariato a domicilio». Ricordando le trasformazioni e innovazioni, soprattutto nel terziario pubblico e privato, che nell’ultimo anno e mezzo hanno avuto una forte accelerazione, ha denunciato che con buona pace dei sindacati «la dimensione sociale del lavoro è diventata privata», creando una situazione claustrofobica ancora più pesante nel caso delle donne: «In casa si riconciliano finalmente il lavoro produttivo e riproduttivo delle donne per la gioia del capitalismo, del patriarcato e anche dello Stato». Dalle sue parole è emerso anche che le chiese protestanti avrebbero qualcosa da dire in merito all’etica e alla rivalutazione del lavoro, e anche su come intendere la dimensione dell’individualità: ma forse questo tema andrebbe sviluppato con una discussione ad hoc, che non ha trovato molto spazio in questa occasione.

Più ottimista la posizione di Simona Menghini, che dal suo punto di osservazione di direttrice della comunicazione per Oracle Italia, ha notato che aumentano le donne impegnate nel lavoro e nella formazione nelle cosiddette Steam (Science, Technology, Engineering, Art, Mathematics): «Vedo che si sta muovendo qualcosa di positivo, sempre più giovani donne stanno portando un punto di vista nuovo» in ambiti un tempo appannaggio maschile.

Ricordando Luana D’Orazio e Laila El Harin, le due operaie uccise dal loro lavoro, Giudici ha dato la parola a Shqiponja (Sonia) Dosti, sindacalista responsabile del Dipartimento Immigrazione Cgil nel Lazio, che con una panoramica su vari settori (dall’agricoltura alla pubblica amministrazione, dalla ricerca scientifica al lavoro domestico, dallo smartworking al ruolo di caregiver) ha ricordato che sebbene si stia «facendo molto sulla sicurezza nel lavoro, non solo in ambito Covid, non possiamo abbassare la guardia, c’è molto da lavorare: i diritti sono un tesoro da proteggere e trasmettere alle generazioni future».

Giudici, aprendo il secondo giro di interventi, ha ricordato tra gli altri l’esempio del gruppo Women 20 (W20), nato nell’ambito del G20 per ridurre il divario di genere nel mondo del lavoro, portando allattenzione dei grandi della Terra” alcune necessità: una vera parità di genere, istruzione e formazione, sicurezza, infrastrutture sociali (non soltanto asili aziendali!), nell’idea che far studiare le ragazze significa aiutare tutta la società a svilupparsi, a migliorare.

Il pensiero non poteva non andare immediatamente alla situazione drammatica dell’Afghanistan, rievocata fin dai saluti iniziali dalla pastora Gabriela Lio, presidente Fdei, «che ci riguarda tutte e tutti e di fronte alla quale abbiamo il dovere di reagire». La Fdei, ha ricordato Lio, ha già aderito a diversi appelli e reti di aiuto.

Sulle prospettive future, le tre oratrici hanno confermato in un certo modo le posizioni precedenti: Visintin, ricordando l’interdipendenza tra le creature e la necessità di tornare a un welfare veramente universale, ha espresso preoccupazione verso i giovani: «Non c’è una domanda di cambiamento, ma un adattamento rassegnato, c’è poca ambizione nei sogni e nelle visioni». Menghini ha invece sottolineato che «da sempre le donne dimostrano estrema resilienza, e stanno cambiando gli stereotipi che le vedono realizzate primariamente nella famiglia». Dosti ha ricordato l’importanza di «fare rete tra sindacati, società civile, ecc.; fare in modo che le donne coprano ruoli decisionali, perché non può che essere un elemento di qualità; la parità non si gioca solo sui numeri, ma sulle condizioni di lavoro, la parità salariale, ecc… Vigiliamo affinché le risorse del Pnrr vengano impiegate per favorire davvero l’inclusione, la formazione, gli investimenti».

È poi seguito uno spazio per le domande del pubblico: dalla considerazione che quando arrivano a posizioni di potere, spesso le donne riproducono i cliché (maschili) che si vorrebbero combattere; al fatto che tuttora una eventuale gravidanza (se non altro per motivi anagrafici) è un deterrente all’assunzione; alla denuncia della speculazione delle aziende sul telelavoro (da non confondere con lo smartworking, peraltro anch’esso fonte di disparità, come si è detto); e infine, all’osservazione che in quel 52% di donne non conteggiate nel mondo del lavoro rientra una vasta gamma di lavori informali, non riconosciuti ma fondamentali. Le donne lavorano in ogni campo,

come rappresentato iconicamente dall’immagine scelta per la locandina, che riprendeva il famosissimo manifesto statunitense del 1943 noto per lo slogan “We can do it!”. Possiamo farlo, possiamo farcela, ma forse siamo noi le prime a dovercene convincere.