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Crisi cubana: tra rivoluzione ed embargo

Domenica 11 luglio 2021 a Cuba è avvenuta la protesta popolare più partecipata degli ultimi sessant’anni. Solamente nel 1994 avvenne qualcosa di simile a L’Avana, ricordata come maleconazo a partire dal nome della riviera della città (malecón), dove la gente si era ritrovata per protestare. Eppure, neanche in quella storica occasione si raggiunse un numero così grande di manifestanti come avvenuto la scorsa domenica. Una gran quantità di persone si è riversata per le strade, da occidente a oriente del Paese, a causa di una delle crisi più acute della sua storia.

La pandemia ha limitato una delle fonti principali d’entrata del Paese, ossia il turismo, e presto sono venuti a mancare i beni di prima necessità (come cibo, medicinali e prodotti sanitari). I prezzi sono improvvisamente saliti e il sistema de las libretas de abastecimiento, che garantisce per ogni famiglia cubana beni di prima necessità a basso costo, non riesce neanche a essere un sostegno sufficiente per i bisogni del popolo. Si sono formate negli ultimi mesi file chilometriche davanti a negozi alimentari poco forniti, nei quali è possibile comprare cibo solamente con carte di credito caricate con moneta straniera: un’altra misura adottata dal governo per risollevare l’economia. La crisi cubana si è aggravata ulteriormente per il difficile contenimento della pandemia, inizialmente ben gestito ma negli ultimi mesi aggravatosi a causa delle varianti del Sars-Cov-2. Infine, i cubani e le cubane affrontano frequentemente ore di blackout a causa del sovraccarico delle vecchie infrastrutture termoelettriche, che si sono trovate d’un tratto a fornire elettricità anche ai nuovi centri medici sorti per curare i pazienti Covid. Al di là del cambiamento del modello economico cubano, è importante tenere in considerazione la transizione politica nella leadership della Revolución: una nuova generazione (Miguel Díaz-Canel) è succeduta alle figure storiche (Fidel e Raúl Castro).

Nel mezzo della pandemia, il governo prosegue dando priorità ai servizi pubblici, essendo il primo Paese dell’America Latina a produrre un proprio vaccino efficace contro il Covid (Abdala), accelerando il processo di vaccinazione di massa e continuando la ricerca di altri quattro candidati vaccinali. Inoltre, di fronte all’iniziale collasso del sistema sanitario di alcuni Paesi (anche sviluppati come l’Italia), i medici cubani hanno risposto solidariamente alla chiamata per condividere il proprio servizio.

In questa situazione di forte precarietà, durante le proteste di domenica sono comparse immagini e video sui social con frasi come vida y patria (vita e patria), libertad (libertà), abajo la dictadura (abbasso la dittatura). E, addirittura, mi è capitato di leggere commenti che dicevano: finalmente inizia la vera rivoluzione a Cuba! Molto di meno si vedono nei video e nei tg internazionali immagini che dicono no al bloqueo (no all’embargo): politica statunitense introdotta nel 1962 durante la presidenza Kennedy, e recentemente inasprita durante la presidenza di Donald Trump, mirata a restringere gli scambi commerciali tra i due Paesi e con altri Stati alleati storici degli Usa (come, a esempio, molti Paesi dell’Unione Europea). Quella alla quale stiamo assistendo potremmo definirla una “guerra fredda 2.0”, nella quale ciò che viene trasmesso e fatto vedere dai media internazionali è solamente la brutta faccia di un popolo stanco, provato e affamato che, purtroppo, al suo interno ha persone che approfittano della situazione per commettere atti vandalici (come rapinare supermercati e distruggere le macchine della polizia).

La crisi cubana è un ottimo esempio delle contraddizioni e ingiustizie di questo mondo, nel quale i Paesi ricchi si permettono di criticare e osteggiare il modello e l’economia di una società che non risponde a quello ritenuto più giusto, quello capitalista e consumista, il quale permette di tenere il potere e la maggior parte dei beni materiali che poi, in molti casi, vengono sprecati mentre ci sono Paesi come Cuba che ne avrebbero urgentemente bisogno. Portare la democrazia e la libertà è la scusa che si vende mediaticamente al mondo per legittimare un possibile intervento militare, violare il diritto di sovranità di un popolo. Nel caso cubano bisognerebbe tener conto della salute e istruzione completamente gratuita, valorizzazione della propria storia, cultura, musica e bellezze paesaggistiche, investimento sulla ricerca medica, lotta alla criminalità organizzata e all’uso delle droghe, il tentativo di creare un sistema alimentare garantito per tutto il popolo, l’approvazione nel 2019 di una nuova Costituzione a partire da un referendum popolare.

In una situazione di crisi, come quella cubana, penso che ci siano due possibili cammini per evitare di scatenare un’altra guerra e ricercare insieme la giustizia. Il primo è che il governo cubano sia in grado di ascoltare le esigenze del popolo e di togliere eventuali limitazioni per favorirne la loro realizzazione. In sostanza, che il governo e il popolo sappiano dialogare e discernere la difficoltà del momento alla luce della propria storia e dei valori che fino a oggi li hanno guidati, piuttosto che reprimere le proteste e fomentare le divisioni interne con una chiamata allo scontro tra rivoluzionari e dissidenti. Il secondo è che i Paesi ricchi, in primis gli Stati Uniti, sappiano rispondere in un momento di crisi pandemica in modo umano e non ideologico, mandando beni di prima necessità (cha hanno in abbondanza) al popolo cubano, togliendo l’embargo e rispettando la sovranità di un popolo che ha saputo autodeterminarsi nel corso della sua storia, sempre liberandosi dall’intromissione di potenze straniere, prima dai coloni spagnoli e poi dalle logiche imperialiste statunitensi.

Qui la presa di posizione della Fraternità delle chiese battiste a Cuba in relazione alla situazione in corso sull’isola.

 

Foto di Gordon Johnson da Pixabay