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L’educazione, una promessa di giustizia

«Lei chi ha punito?»: questa è una domanda che Luciana Breggia si è sentita fare più volte in questi anni, nelle scuole di tutta Italia dove porta progetti di educazione alla legalità. Un’attività sempre più coinvolgente, che l’ha portata a una scelta radicale, lasciare la magistratura dopo 36 anni (ultima sede Firenze), alla fine del 2020: «La spinta era molto forte e chiara dentro di me e il passaggio da giustizia a educazione è stato naturale, perché in fondo l’educazione è una promessa di giustizia». Il “bagaglio” del lavoro precedente, svolto soprattutto in ambito civile, è stato importante, a partire da un diverso concetto di giustizia: «C’è questa idea del giudice che punisce. In realtà è la giustizia civile che fissa i principi su cui si regge la convivenza civile». 

Tutto parte dall’incapacità di gestire i conflitti, dalla mancanza di un’educazione in tal senso, osserva Breggia: «Mi sono resa conto, occupandomi di conflitti di tutti i tipi (familiari, di vicinato, contrattuali) che gli adulti tendono a delegare ad avvocati e giudici perché la nostra mentalità è segnata dall’idea che il conflitto è una questione da professionisti». Superando una cultura in cui «l’avvocato va in battaglia per vincere e il giudice cala la spada», per giudici, avvocati, docenti e mediatori che da anni lavorano (in mezzo a forti ostilità) sulla mediazione dei conflitti, si tratta «di un rovesciamento della mentalità: bisogna pensare a giudici e avvocati che promuovono la capacità di autodeterminazione delle persone; l’intervento del giudice è un secondo livello, prima le parti devono essere aiutate a risolvere il loro conflitto». 

I grandi bisticciano proprio come i piccoli, racconta Breggia ai bambini delle scuole, a partire dalle materne, perché «se non si riparte da lì domani non avremo dei cittadini e dei professionisti con una mentalità diversa». E porta i casi paradossali (ma reali!) del suo libro Il giudice alla rovescia (Einaudi ragazzi), convinta che sia necessario un “rovesciamento di prospettiva”: riportare «al centro della nostra riflessione educativa il conflitto, insegnare ai ragazzi come gestirlo senza essere prevaricatori, distruttivi. I temi del bullismo vengono dopo, la prima cosa è riconoscere il conflitto come qualcosa di fisiologico, non negativo in sé, ma anzi “generativo”, perché nel conflitto si scoprono i propri limiti, che cosa si vuole davvero, che cosa vogliono gli altri. Questo necessita di un’educazione affettiva, saper governare le emozioni; necessita di creatività: siamo abituati a pensare che ci sia una sola soluzione, invece ce ne sono tante; e poi necessita di comprensione delle differenze e delle ragioni dell’altro». 

Il lavoro sulle regole, sulle leggi, porta i bambini «a scoprire la legalità non come un divieto formale, che viene dall’alto, ma come regola che ci serve a stare bene, che ci protegge e risponde a una nostra esigenza. Alla fine dei laboratori, l’accordo che i ragazzi trovano sul loro conflitto diventa una regola da proiettare sul futuro». 

Si tratta insomma di praticare quella “educazione civica trasversale” che nelle ultime settimane è entrata nel dibattito, anche polemico (per la questione dell’affidamento de facto, in molti casi, agli insegnanti di religione cattolica), e che ha un significato profondo, ricorda Breggia, «ex-ducere, portare fuori dai vecchi recinti, condurre verso lo sviluppo delle proprie potenzialità, e civitas, che ricorda l’importanza di essere cittadini attivi». 

L’idea di un insegnamento trasversale alle varie materie è al centro del suo secondo libro per bambini, appena uscito per Edizioni Terra Santa, La scuola sotto l’albero, in cui un maestro molto speciale insegna la storia dei numeri e delle parole, fa lezioni di natura e “di cielo” all’aperto. Il fil rouge è sempre l’educazione alle relazioni, al rispetto delle differenze, ma qui anche all’intreccio fra saperi e competenze, spiega l’autrice, nell’ottica della global education, «che apre gli occhi e la mente delle persone alla realtà del mondo globalizzato e le risveglia per realizzare un mondo di maggiore giustizia, equità e diritti umani per tutti», come scrive il Consiglio d’Europa, ricorda Breggia: «Trovo molto importante questa idea, in un mondo così pieno di disuguaglianze, di guerre, difficili da tollerare, non possiamo stare chiusi nel nostro bozzolo, dobbiamo svegliare mente e cuore e l’educazione civica può aiutare in questo». 

È fondamentale, però, fare il lavoro insieme: bambini, genitori, insegnanti. E qui sorge un altro cruciale “rovesciamento di prospettiva” nella gestione dei conflitti: ricucire l’intreccio scuola-comunità, lo strappo tra famiglie e scuola, sottolinea Breggia, che insieme all’associazione del “Giudice alla rovescia”, che ha convogliato diverse professionalità intorno ai progetti sia con i bambini (laboratori su vari temi, tra cui l’interculturalità) sia con gli adulti, ha cominciato a tenere corsi con insegnanti e genitori, per riannodare una comunicazione evidentemente in crisi, partendo dalla consapevolezza che «è un dovere sociale di ogni adulto, educare i bambini a questa dimensione, come indicato dalla Costituzione e dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza». 

Ancora una volta, si può imparare dai bambini: «Per loro il concetto di intercultura è naturale, prima che intervenga qualcosa a bloccare lo spontaneo incontro con l’altro, a instillare il pregiudizio, la paura». Breggia riconosce di avere imparato molto da loro, ma anche dalle insegnanti, «persone competenti, coraggiose e creative», anche in questo anno così difficile. Non a caso La scuola sotto l’albero, dedicato proprio a loro (insegnanti e studenti) inizia parlando di un «cataclisma che aveva sconvolto le abitudini e le vite»: la speranza, conclude Breggia, è riuscire a conservare e utilizzare nel futuro quanto abbiamo imparato. 

 

Foto: da un’illustrazione di Paola Formica in “La scuola sotto l’albero” (Edizioni Terra Santa, 2021).