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Prendere le distanze dal passato

Negli scorsi giorni è tornato a riaccendersi il dibattito sul Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso di Torino con le dichiarazioni del senatore del Gruppo Misto Saverio De Bonis, il quale il 13 maggio con un lungo post su Facebook ha annunciato di aver formalizzato la richiesta di chiusura del museo. De Bonis rimarca come il museo sia «dedicato alla superiorità del popolo settentrionale rispetto ai Meridionali» e che qui siano esposti «resti dei patrioti meridionali che resistettero all’invasione piemontese. I loro crani esposti al sol fine di dimostrare l’inferiorità dei meridionali». Al di là delle inesattezze storiche e nel merito del museo stesso contenute nel post, ad essere preoccupante è la logica alla base della presa di posizione, ovvero la mancanza di contestualizzazione a livello storico di fenomeni, atti e oggetti.

Andando con ordine, il Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso nasce come esposizione delle raccolte dello stesso Lombroso, il quale iniziò i propri studi quando era ufficiale dell’esercito piemontese (poi italiano). Dal 1876, “data di nascita” dell’esposizione, ad oggi gli allestimenti sono stati modificati diverse volte, e con essi il messaggio che il museo porta con sé.

Il concetto che sta alla base delle moderne museologia e museografia è che ogni allestimento è veicolo di una storia. Talvolta possono essere i soli oggetti a raccontarla, talvolta la narrazione si sviluppa anche grazie agli oggetti esposti. In ogni caso, chi si occupa di costruire il museo ha in mente un messaggio che verrà “consegnato” al visitatore grazie, ad esempio, ai pannelli, agli oggetti e la loro posizione nello spazio, all’illuminazione e così via. Già da questo aspetto si può facilmente comprendere come, nel caso del Museo Lombroso che parte da una collezione privata di uno studioso, ci sia uno scollamento tra la sensibilità attuale in particolare su alcuni temi e quella di chi ha dato il via alla raccolta e all’esposizione. Se lo scopo di Cesare Lombroso era dimostrare la presenza atavica di segni di criminalità nelle persone, oggi sappiamo che le cose sono ben più complesse di così, e l’allestimento attuale del museo è improntato a raccontare gli errori nel metodo scientifico di Lombroso che lo portarono a formulare ipotesi scorrette.

Volendo aggiungere un ulteriore elemento di complessità al tema, si potrebbe ricordare come la storia, l’archeologia e tutte le moderne scienze che dialogano con il passato hanno la necessità di dare un taglio il più possibile neutrale alla loro ricostruzione. Nel lavoro dello storico non deve esserci spazio per il giudizio: in passato questo esisteva, certamente, ma nel Novecento si è superata una certa idea moraleggiante della storia. Ci sono i fatti, le ricostruzioni che possiamo farne, i documenti, e poi le idee delle persone vissute in passato, che possono essere legittimamente diverse dalle nostre. In alcuni casi la sensibilità è cambiata drasticamente, eppure continuiamo a parlare (anche con una certa ammirazione) di Ottaviano Augusto sebbene vivesse circondato da schiavi: all’epoca era la prassi, oggi non più.

Ogni evento storico, dal più piccolo al più eclatante (se ha ancora senso una distinzione in questo senso), va inserito nel suo contesto di riferimento, a prescindere da quanto si possa scontrare con l’etica attuale. Fare ricerca in questo ambito non significa attuare una mera operazione di memoria ripescando istantanee dal passato, ma tentare di comprendere quei processi e fenomeni che in ultima battuta hanno portato alla formazione del mondo attuale.

Troppo spesso, in passato come oggi, la ricostruzione storica è viziata da visioni ideologiche, che per certi versi è impossibile lasciarsi alle spalle: ogni persona che si occupa del passato deve in qualche modo fare i conti con il suo presente, in cui vive e lavora. È invece compito di chi fruisce delle opere storiche, siano esse libri, musei, fumetti o film, provare a comprendere e percepire la distanza tra noi e il passato.

 

Foto di régine debatty