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I brevetti sui vaccini, tra economia, politica ed etica

È stata una svolta. Un annuncio importante, quello fatto il 5 maggio scorso da Katherine Tai, ministra per il Commercio estero, a nome dell’Amministrazione Biden: gli Stati Uniti sono favorevoli a sospendere i brevetti industriali sui vaccini anti-Covid, per far fronte all’eccezionale emergenza pandemica. Si tratta di una misura da mesi sollecitata dall’Organizzazione mondiale della Sanità. Non decisiva in sé, perché resta il problema delle capacità produttive, ma significativa. Ora la discussione si sposta al Wto, l’organizzazione multilaterale del commercio mondiale, mentre riserve e opposizioni non mancano, da parte delle imprese titolari dei brevetti (ovviamente) ma anche da parte di alcuni governi, come quello tedesco.

Il brevetto è il principale strumento di protezione della proprietà intellettuale. Costituisce un’eccezione al principio della libera concorrenza, perché garantisce al detentore un monopolio legale, sia pure limitato nel tempo. Come tutti i monopoli produce una rendita, a favore dell’innovatore, l’imprenditore disposto ad assumersi il rischio di introdurre nuovi prodotti e processi. L’innovazione è al centro della geniale analisi di Joseph Schumpeter (1883-1950), che introdusse l’idea della “distruzione creativa” nella dinamica del capitalismo. La giustificazione data al brevetto è la remunerazione del rischio dell’innovazione e degli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) sostenuti dalle imprese: nel caso dei vaccini, le grandi e potentissime multinazionali del farmaco (Big Pharma), alleate a volte con alcuni nuovi entranti, o start-up (è il caso di Pfizer e BioNTech). I brevetti si giustificano come incentivi all’innovazione.

La proposta americana parte dalla considerazione dell’eccezionalità della crisi pandemica in atto, e dell’urgenza di accelerare la produzione di vaccini. È di particolare interesse per paesi come l’India, sede di un forte settore farmaceutico (a suo tempo sviluppatosi senza rispettare le regole della proprietà intellettuale) e in grado di produrre vaccini anti-Covid.

Il mercato dei vaccini è profondamente asimmetrico

– Dal lato dell’offerta, un oligopolio privato, con potenti imprese multinazionali che localizzano la produzione in più paesi e sostengono forti spese in R&S (che ricevono però massicci finanziamenti pubblici). 

– Dal lato della domanda, degli enti pubblici (gli Stati), che negoziano quantità e prezzi dei vaccini con le grandi imprese, e ne decidono la somministrazione. 

Non si è trattato in alcun modo di un bene pubblico, perché è mancato un requisito essenziale: la sua abbondanza (come l’aria o l’acqua). Al contrario è stato finora un bene estremamente scarso, contingentato in via amministrativa, con possibili arbitrarietà e corruzione. È una situazione molto simile a quella di un’economia di guerra, con la differenza che in questo caso (fortunatamente) non si tratta di produrre armi ma vaccini. Questo pone pressanti problemi etici, di fronte all’intreccio fra interessi economici e drammatici problemi di salute, mentre i fallimenti dei mercati e quelli della politica si scontrano con i bisogni delle popolazioni vittime della pandemia.

La decisione di sospendere temporaneamente i diritti di proprietà sui brevetti può essere una misura di concreta solidarietà, soprattutto nei confronti di paesi emergenti come Sudafrica, Brasile e India. Il segno di una nuova consapevolezza che nessun paese potrà dirsi veramente al sicuro finché non lo saranno tutti. Possiamo qui ricordare un altro caso di sospensione di un brevetto al fine di salvare vite umane: nel 1959 un ingegnere della svedese Volvo, Nils Bohlin, inventò la cintura di sicurezza a tre punti per autoveicoli, che ancora oggi tutti usiamo. I dirigenti di Volvo, assai sensibili all’etica protestante, decisero di mettere il brevetto a disposizione di tutti i costruttori concorrenti, rinunciando a colossali profitti e salvando numerosissime vite. Altri tempi, forse. Un bell’esempio di responsabilità sociale d’impresa.