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I grandi piani per l’Earth Day tra le folate di CO2

Il 22 aprile è l’Earth Day (Giorno della Terra), un giorno che dal 1970 è dedicato alla protezione ambientale. Inizialmente osservato solo negli Stati Uniti, da alcuni decenni viene seguito anche in buona parte del resto del mondo.

Spesso al valore simbolico della ricorrenza si sono sovrapposte iniziative importanti; su tutte spicca la firma dell’Accordo di Parigi, avvenuta proprio il 22 aprile del 2016, ma anche quest’anno diverse forze mondiali sembrano voler intercettare questa data per raggiungere un’intesa climatica internazionale. In particolare, la spinta arriva dagli Stati Uniti (appena rientrati nello stesso Accordo di Parigi), in rappresentanza dei quali negli scorsi giorni l’inviato speciale per il clima americano John Kerry è stato ospitato in Cina; l’obiettivo era quello di portare anche il paese asiatico ad un tavolo virtuale organizzato dagli Usa il 22 e il 23 aprile con lo scopo principale di stringere ulteriormente i tempi rispetto ai piani dei vari stati riguardo al raggiungimento della neutralità carbonica. Per gli Stati Uniti era fondamentale la presenza della Cina, visto che l’approccio di Biden sembra puntato, perlomeno per quanto riguarda il clima, alla cooperazione internazionale, tanto che al summit è stata invitata anche la Russia.

Secondo alcune analisi, la strategia del governo Biden è quella di fare pressioni a livello globale per far scattare una corsa alla maggiore ambizione climatica. Si potrebbe interpretare in questo senso l’intesa raggiunta dal Parlamento Europeo il 21 aprile per migliorare i precedenti piani sulle emissioni di CO2 (annunciando di volerle ridurre del 55% entro il 2030), così come la conferma di Xi Jinping riguardo alla partecipazione cinese al tavolo e più in generale alla volontà del paese di collaborare su questo tema con gli Usa.

Proprio la Cina però spicca in negativo in un rapporto pubblicato a pochi giorni di distanza dal summit. Si tratta della Global Energy Review 2021, una relazione annuale stilata dall’Agenzia internazionale dell’energia (IEA), organizzazione intergovernativa fondata dall’OCSE. Il focus è sull’anno in corso, perciò si tratta di una previsione sull’andamento energetico nel 2021. Le proiezioni sono tutt’altro che rosee: se il 2020 aveva visto un calo complessivo di richiesta di energia del 4%, nel 2021 si prevede una nuova crescita del 4,6%, portando così la domanda addirittura oltre i valori del 2019. Si tratterà di una crescita trainata soprattutto dalle economie emergenti, visto che in quelle più ricche si registrerà ancora un calo del 3% rispetto al consumo energetico del 2019.

In ogni caso, secondo gli analisti, si andrà incontro ad una nuova impennata nelle emissioni di CO2 (principale responsabile della crisi climatica), poiché le energie rinnovabili rappresenteranno solo una parte minoritaria di questa crescita. In particolare, preoccupa la crescita prevista per l’uso di carbone, che aumenterà del 60% rispetto a tutte le fonti rinnovabili messe insieme, soprattutto in Asia e ancora di più in Cina, che si prevede vada a rappresentare il 50% di questo aumento. La dipendenza dal carbone in Cina viene indicata con preoccupazione ormai da molto tempo, ma, come fa notare il South China Morning Post, continuano a mancare segnali forti nella direzione contraria, contando che è addirittura in programma la costruzione di nuove centrali dedicate.

Non manca qualche nota positiva. Le fonti rinnovabili, seppur ancora in minoranza, arriveranno a rappresentare entro fine anno il 30% del consumo energetico mondiale, il dato più alto dall’epoca pre-industriale. Ma è chiaro che la IEA intenda sottolineare con questo rapporto le ombre, più che le luci, quasi a voler lanciare un segnale urgente proprio al summit previsto per questi giorni.

Foto di Aksh Kinjawadekar da Pixabay