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La strada verso la definizione di ecocidio

Seguendo in questi anni la crescita della preoccupazione verso la crisi climatica, sempre più capillare nonostante le continue spinte indietro da numerosi fronti, può venire naturale talvolta porgersi una domanda: tra qualche decennio, guardandoci indietro, che cosa penseremo del nostro impatto sul clima? Che idea ci faremo di chi ora porta avanti pratiche distruttive in nomi di ideali che, forse, nel frattempo, avranno perso di valore rispetto alla lotta alla crisi climatica? Metteremo magari politici e imprenditori attuali, responsabili di danni all’ambiente, allo stesso livello di chi è passato alla storia per gravi violazioni di diritti umani?

Sono interrogativi molto complessi. Innanzitutto, si tratta di prevedere il futuro, perciò le risposte si possono soltanto ipotizzare. Inoltre, queste domande danno per scontato che in futuro l’importanza data alla lotta alla crisi climatica sia diventata dominante, eventualità tutt’altro che inevitabile. Tuttavia è innegabile che la domanda si stia diffondendo, tanto che si fa sempre più pressante l’ipotesi di introdurre la definizione di un nuovo reato: l’ecocidio.

Fin dal nome appare chiaro il collegamento con il genocidio, tanto che proprio da qui comincia un articolo pubblicato lo scorso febbraio su The Economist, disponibile in italiano su Internazionale: al termine della Seconda Guerra Mondiale ci si ritrovò a processare a i responsabili dell’Olocausto, ma all’epoca mancava una definizione, anche giuridica, di quel crimine. Allora venne introdotto il concetto di genocidio, adottato poi dalle Nazioni Unite, per indicare e processare le azioni di chi si macchiava dello sterminio di intere popolazioni.

Un percorso simile potrebbe avere il concetto di ecocidio. Poco immaginabile fino a qualche decennio fa, ora invece sta prendendo slancio. Soprattutto a partire dallo scorso novembre, quando un gruppo di avvocati esperti di diritto internazionale si è riunito per definire in modo formale il reato di ecocidio, con la speranza che la proposta venga fatta propria da paesi e istituzioni globali fino ad essere adottata, in forma di emendamento, allo Statuto di Roma, il trattato internazionale che istituisce la Corte Penale Internazionale (CPI). Questo è l’ente che si occuperebbe delle accuse, ed eventualmente delle condanne, per ecocidio.

Non sono pochi gli ostacoli a questo percorso. Innanzitutto, la definizione precisa di ecocidio. L’intenzione è quella di abbinarlo all’impatto ambientale di pratiche che superino i confini locali e nazionali, sia geograficamente (come l’azienda che disbosca foreste all’estero) sia in termini di gravità percepita (come il governo brasiliano che supporta il disboscamento della Foresta Amazzonica: è sul proprio territorio, ma è considerata vitale per tutto il mondo). Lo sguardo fortemente globale è proprio una delle caratteristiche dell’attivismo climatico recente, elemento che sta probabilmente alla base della nuova spinta verso questa definizione giuridica e anche della scelta della CPI come organo d’elezione.

Il focus sarebbe quindi sulla crisi climatica, ma questo rende molto complesso indicare colpe e responsabilità. È (relativamente) facile indicare il collegamento tra la petroliera bucata e la chiazza di petrolio sversata in mare. Molto più complicato (o forse impossibile) trovare il nesso diretto tra l’emissione di CO2 da una ciminiera e gli effetti del cambiamento climatico. Per questo la definizione giuridica va calibrata con molta attenzione: non si può pretendere di trovare un nesso lineare tra causa ed effetto, ma nemmeno esprimersi in termini troppo generali e “svendere” il peso del reato.

Non sono le uniche difficoltà. Un recente articolo di Politico mette insieme alcune resistenze incontrate dalla campagna Stop Ecocide, non solo dai fronti politici e sociali già di per sé restii a legislazioni forti per la difesa del clima. Anche tra gli stessi attivisti climatici emergono alcuni dubbi. Intanto, si fa notare che paesi come Stati Uniti, Cina, Russia, India, Indonesia, Arabia Saudita, Pakistan e Turchia non sono membri della CPI, perciò i loro cittadini non sarebbero raggiungibili dall’accusa di ecocidio. Invece Andrew Raine, capo dell’unità di diritto ambientale internazionale del Programma ambientale delle Nazioni Unite, accenna molto diplomaticamente alla presenza di numerosi leggi ed istituzioni in molti paesi che già si occupano di questo tipo di reati, pur senza la definizione di ecocidio. Chi promuove questa campagna sottolinea però proprio l’importanza di ampliare il raggio d’azione della legge per processi di natura ambientale e climatica, sostenendo che l’introduzione farebbe una differenza significativa. La qualità simbolica del reato potrebbe, già di per sé, avere un peso politico forte e portare ricadute a catena.

Al momento, sebbene il tema stia circolando con più vigore, si tratta ancora di una conversazione marginale, perciò l’obiettivo di questa fase è di farla arrivare più in alto. Le speranze sono riposte in particolare sulla Francia, perché da qualche tempo il governo sta proponendo di inserire l’ecocidio tra le leggi nazionali. Da qui, si punta a coinvolgere l’Europa nel suo complesso, per trainare poi il resto del mondo. La strada, se mai verrà percorsa fino in fondo, è molto lunga, ma si può almeno ipotizzare che, tra qualche decennio, guardandoci indietro avremo un nome preciso per chiamare i reati dietro alla crisi climatica.

 

Foto via Pixabay