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Mediterraneo. La Libia non è un porto sicuro

Tra il 28 marzo e il 3 aprile sono stati 1663 i profughi intercettati in mare dalla Guardia costiera libica e riportati nel paese nordafricano: è quanto fa sapere l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). A poco meno di un mese dall’insediamento del nuovo governo di unità nazionale – il cui compito è quello di traghettare la Libia verso elezioni il prossimo 24 dicembre – la situazione nei campi di detenzione, in cui vengono riportati i migranti intercettati in mare, non è cambiata.

Lo conferma in un tweet il portavoce dell’Ufficio di Coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim, Flavio di Giacomo: «La Libia non è considerata un porto sicuro, e i migranti rispediti indietro vengono per lo più mandati nei centri di detenzione dove rischiano violenze e abusi». Dall’inizio dell’anno, nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, sono morti 237 bambini, donne, uomini. Rispetto all’anno precedente le partenze dalla Libia sono aumentate del 20%.

L’inviato speciale del Segretario generale Onu per la Libia, lo slovacco Jan Kubiš, ha riferito al Consiglio di sicurezza che «3.858 migranti sono detenuti in centri di detenzione ufficiali in condizioni estreme, senza un giusto processo e con restrizioni all’accesso umanitario». L’inviato Onu a Tripoli, che pure guarda con favore al nuovo governo guidato dal premier Abdulhamid Dbeibah incaricato di avviare la riconciliazione nazionale, si è detto preoccupato per le gravi violazioni dei diritti umani contro migranti da parte del personale del Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale e dei gruppi armati coinvolti nella tratta di esseri umani.
Di fronte alla diffusione della pandemia da coronavirus, già a maggio dell’anno scorso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Unhcr) aveva esortato i governi a rispettare il diritto internazionale e il principio di «non-refoulement»: «chi viene rimandato indietro finisce nei centri di detenzione arbitraria dove regnano condizioni orribili, torture, trattamenti disumani, violenza sessuale, mancanza di cure sanitarie e altre violazioni dei diritti umani». Pertanto, per l’Unhcr, va adottata una «moratoria sui respingimenti dei migranti» intercettati in mare, mentre all’azione di salvataggio delle Ong impegnate nel Mediterraneo «va tolto ogni ostacolo».

La cosiddetta Guardia costiera libica, composta da differenti e autonome polizie marittime e finanziata da Frontex (l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera), è di fatto deputata a riportare indietro i profughi dei barconi. L’Unione europea (UE) è corresponsabile di quanto succede fuori dai propri confini, ma anche la Svizzera, in quanto membro dell’area Schengen, partecipa al sostegno finanziario ed operativo di Frontex, dove siede nel Consiglio di amministrazione.
Frontex – che collabora con la Guardia costiera libica fornendo tra l’altro vari materiali – fino al 2019 ha ricevuto dalla Confederazione 14 milioni di franchi all’anno. I contributi elvetici aumenteranno progressivamente fino a raggiungere i 96 milioni nel 2027.

Inoltre, la Svizzera invia circa 40 esperti ogni anno. L’Amministrazione federale delle dogane, la Segreteria di Stato della migrazione e i cantoni saranno chiamati a fornire ulteriori effettivi. Dal “Rapporto annuale del Consiglio federale sulle attività svolte dalla Svizzera nel settore della politica migratoria estera” si evince che «la Svizzera assicura già tuttora 1500 giornate d’impiego nelle operazioni Frontex, perlopiù alla frontiera terrestre greco-turca».

Secondo Annalisa Camilli, esperta di migrazioni e giornalista, «i governi europei hanno smesso di fare quello che facevano fino al 2013, e cioè: soccorrere. Non stiamo più discutendo di politiche migratorie, ma di come meglio difendere la “fortezza Europa”».
Dagli ostacoli alle Ong agli accordi con la Libia, Dunja Mijatovic, commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, nel suo recente rapporto denuncia le politiche migratorie dei paesi dell’Ue, responsabili di migliaia di morti in mare. La pandemia, dice, ha aggravato la «vergognosa tragedia». Per quanto riguarda il trasferimento in un porto sicuro delle persone soccorse, le statistiche parlano chiaro: nel 2020, il numero di naufraghi intercettati dalla cosiddetta Guardia costiera libica è cresciuto del 34% rispetto all’anno precedente (11.891). Un aumento dovuto agli accordi tra i paesi europei e le autorità libiche. In questo disegno, la commissaria sottolinea l’ostilità nei confronti delle Ong che operano in mare.

Tra le raccomandazioni elencate da Dunja Mijatovic figura quella dei “visti umanitari”: una possibilità aperta a tutti i paesi dell’area Schengen, grazie alla quale i promotori del progetto ecumenico “Corridoi umanitari” (Tavola valdese, Federazione delle chiese evangeliche in Italia e la Comunità di Sant’Egidio) sono riusciti a far arrivare dal Libano in modo legale e sicuro migliaia di profughi in Italia. Una soluzione caldeggiata da tempo dalla HEKS, l’ente di aiuto delle chiese evangeliche in Svizzera, che nel 2018, insieme all’Organizzazione svizzera per l’aiuto ai rifugiati OSAR aveva consegnato al governo federale oltre 38.000 firme della petizione per “vie sicure e legali per i profughi”.

Come uscirne? Una traccia è stata avanzata da Paolo Naso, coordinatore di Mediterranean Hope – Programma rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei). Nel corso di un webinar intitolato “Mal di Frontiera – la politica migratoria europea”, promosso dall’Alma Teatro di Torino, in collaborazione, tra gli altri, con il settimanale “Riforma”, Naso ha sottolineato la necessità di affrontare questa situazione evitando soluzioni settoriali. «Servono un rilancio della cooperazione allo sviluppo da una parte, e dall’altra delle serie politiche di stabilizzazione, disarmo e sicurezza; inoltre, va rafforzato e potenziato quello che è un “principio arcaico di civiltà”, e cioè il soccorso in mare, superando la contrapposizione tra Ong e Guardie costiere; e, non ultimo, serve l’introduzione su larga scala delle vie legali di accesso, perché per combattere il “traffico irregolare”, serve un “traffico regolare”». Tutto questo, secondo Naso, può essere promosso mediante una collaborazione tra società civile e istituzioni. «Questa è ora la vera sfida – ha aggiunto Naso -, altrimenti rischiamo il fallimento della politica dei diritti umani in Europa».

 
Tratto da Voce Evangelica