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La giustizia climatica alle prese con quella sociale

Nei giorni del processo a Derek Chauvin, il poliziotto di Minneapolis accusato dell’omicidio di George Floyd, tornano alla mente le grandi manifestazioni del movimento Black Lives Matter, che l’anno scorso, in risposta all’ennesima morte di una persona afroamericana durante un incontro con la polizia, portarono migliaia di persone nelle strade statunitensi e in molti altri paesi del mondo a chiedere la fine del razzismo sistemico e istituzionalizzato.

Tra i molti motivi per cui quelle proteste hanno segnato il 2020 e, più in generale, la lotta alle discriminazioni, c’era anche la connessione tra la richiesta di giustizia sociale e l’attivismo ambientale; non inedita, di per sé, ma mai posta in primo piano come allora. In particolare, venne individuata una lama a doppio taglio: il razzismo diffuso è visto sempre più come un freno al progredire delle politiche ambientali, mentre dal lato opposto si nota, anche a livello scientifico, come gli effetti del cambiamento climatico colpiscano maggiormente le popolazioni discriminate dal punto di vista sociale, etnico ed economico.

L’ultimo segnale in questo senso arriva da una ricerca dell’UNEP, il programma ambientale delle Nazioni Unite, che mostra come siano proprio i gruppi marginalizzati ad essere particolarmente soggetti all’inquinamento derivante dalla plastica. Non si tratta soltanto di una distinzione tra paesi ricchi e paesi in via di sviluppo (sebbene quel divario sia profondo anche da questo punto di vista), ma anche di categorizzazioni interne. Le donne, ad esempio, risultato in generale più a rischio degli uomini, a causa di una maggiore esposizione alla plastica in casa e per la presenza di plastiche nei cosmetici; oppure, si nota che nei pressi delle raffinerie americane sul Golfo del Messico vivono soprattutto comunità afro-americane, che restano quindi particolarmente esposte a quell’inquinamento.

Proprio da qui scaturiva, in particolare, l’unione del discorso anti-razzista e di quello ambientale lo scorso anno, con il suggerimento che il più alto livello di inquinamento col quale generalmente convivono i neri americani fosse la causa della loro maggiore mortalità durante la pandemia da Covid-19. La ricerca scientifica non ha poi provato con solidità questo nesso, ma la condizione di partenza – le minoranze etniche finiscono per vivere in aree più inquinate – non è stata smentita, al di là dell’eventuale collegamento con il coronavirus. Il discorso si è poi allargato, raggiungendo appunto una dimensione più generale e legando le due istanze a doppio filo. Non si può risolvere il cambiamento climatico se non si risolve la disuguaglianza sociale, e non ci può essere uguaglianza sociale se non si argina il cambiamento climatico.

Forse non tutti vedono però l’armonia di questo rapporto come inevitabile. Un recente articolo pubblicato su Scientific American fa notare che ecologia e lotta per i diritti non sono sempre andati di pari passo, anzi: spesso in passato si sono trovati in antitesi. L’autrice dell’articolo, Sarah Jaquette Ray, si chiede se il fenomeno della climate anxiety (l’ansia generata dal cambiamento climatico) non possa talvolta portare a sentimenti razzisti, soprattutto all’interno di popolazioni bianche occidentali, preoccupate di difendere il proprio ambiente magari proprio dall’arrivo di stranieri. Da diversi anni viene indicata la crisi climatica come causa o concausa di vari flussi migratori, al punto da coniare l’espressione di migranti climatici, un fenomeno che è destinato ad acuirsi progressivamente. Non è fantasioso immaginare che, in alcuni casi, la preoccupazione per il clima e quella per la protezione dei confini possano sovrapporsi.

Il rischio può anche essere più sottile di così. Ancora Ray mostra come la descrizione più diffusa della crisi climatica la indichi come «la più grande crisi esistenziale dei nostri tempi»; definizione realistica, ma che ignora come, per molte minoranze, questa non sia altro che l’ennesima crisi esistenziale che si sovrappone ad altre già molto presenti.

Il rapporto tra giustizia ambientale e giustizia sociale è stato ormai intrecciato strettamente da attivisti e scienziati, ma potrebbe risultare più complesso e sfaccettato di quanto appaia in superficie. Ancora una volta, sta alla popolazione privilegiata il compito di fare un passo indietro e di guardarsi intorno, chiedendosi, come minimo, se non stia monopolizzando un problema che non riguarda soltanto loro.