istock-1130230765-2

Dialogo e cura nell’incontro con il prossimo

Da un tema particolare, ma centrale nella diaconia, si è ragionato in senso più ampio sul nostro essere chiese. Questa l’impressione che deriva dal 31° Convegno della Diaconia. Necessariamente svoltosi in modalità online, e organizzato dalla Commissione sinodale per la diaconia, esso vede da alcuni anni il concorso della Federazione giovanile evangelica in Italia e poi della Tavola valdese e ora della Facoltà valdese di Teologia. D’altra parte, ha detto il presidente della Csd Giovanni Comba, è caratteristica della Commissione lavorare con molti partner: enti pubblici, organizzazioni internazionali, e soprattutto una trentina di comunità locali, con cui sono avviati progetti condivisi.

Dialogo e cura, anzi: “Dia-logo e cura”, a sottolineare l’etimologia che muove dal lògos, era tema volto, nell’intenzione degli organizzatori, a scandagliare un’interazione complessa: «La Parola che cura e la cura delle parole. Parole e dialogo per vincere i silenzi dell’esclusione. Parole per denunciare, per pregare, per dare voce e consolare. Parole al limite della vita». Proprio così, come si è visto nelle testimonianze di Adriano Peris, direttore della terapia intensiva all’ospedale fiorentino di Careggi: purtroppo – ha rilevato – la pandemia ha reso di fatto “non universale” il diritto di accesso al dialogo, chi più ne avrebbe avuto bisogno, il malato in terapia intensiva, era per ciò stesso escluso dall’uso del dialogo, e la necessità di procedere alla formulazione di tanti “consensi informati” va di pari passo proprio con la riduzione della possibilità di questo dialogo – ciò che pesa anche sull’animo degli operatori, oltre che dei malati e loro famigliari.

L’intreccio, implacabile e creativo, straniante ma necessario, fra dialogo e cura, ricerca e possibilità di cura, si è verificato anche nella seconda parte, in forma di tavola rotonda curata dal decano della Facoltà Fulvio Ferrario: nel solco dell’intervento di Peris si è esaminato l’intreccio fra la dimensione tecnica degli interventi (sanitari, ma anche sociali) e dimensione del dialogo.

Anna Ponente, direttrice del Centro diaconale La Noce a Palermo, ha detto come in una pratica di cura sconvolta dalle misure di isolamento abbiano fatto irruzione parole tecniche che di per sé allontanano (“igienizzare”, “distanziare”). Ora si tratta di dare parola alla stanchezza che chiunque vive, perché sia pronunciata invece la parola della speranza.

Monica Fabbri, biologa e ricercatrice in un grande ospedale, presidente del Concistoro valdese di Milano, ha lamentato che lavorare “imbardati” abbia annichilito il linguaggio extraverbale; quanto alle nostre chiese, con mille tecnicalità si è riusciti a fornire la parola predicata, con più difficoltà però nei momenti dei funerali, nel commiato.

Andrea Gentile, operatore della Csd nella prima e seconda accoglienza a migranti e profughi in Sicilia, ha narrato dell’impatto durissimo della “seconda ondata” in autunno, che ha investito operatori e beneficiari: se «parola è attenzione per chi è marginale», in uno scambio comunicativo limitato dalle distanze linguistiche molto sta proprio nella possibilità del linguaggio extraverbale, frustrato dal distanziamento. Ora servirà anche “ricuperare”: quelle parole, gesti, emozioni resi impossibili a lungo (Fabbri: «abbiamo dovuto raggiungere l’apice della separazione tra dialogo e cura»): e poiché il tempo della cura è anche soggettivo (Ponente), la cura passa anche attraverso la memoria di gesti e azioni.

Al di là della pandemia, è chiaro che lo stesso linguaggio deve essere ripulito dai limiti che ancora tendono a escludere, in particolare le donne, le minoranze. Su questo tema ha ragionato Emma Amarilli Ascoli, della chiesa valdese di Roma – p. Cavour e attivista per i diritti della comunità Lgbtqia+: non è la lingua a essere sessista, ma l’uso che ne facciamo, ha detto, ricordando anche come lockdown abbia significato, per molti e molte, una paura dell’esterno a cui si associava la pressione di un ambiente domestico e familiare spesso non pronto a recepire il disagio di chi vive l’orientamento sessuale in solitudine.

Attraverso il tema “dia-logo e cura” si è ritornati al modo di essere chiesa perché da lì si era partiti, con la meditazione di Alessandra Trotta, moderatora della Tavola valdese (Atti 3, la guarigione di uno zoppo) e con la relazione del pastore Winfrid Pfannkuche. Per le nostre chiese – ha detto la moderatora –, al di là degli interventi di carità cioè di elemosina, si tratta, come per Pietro e Giovanni, di non eludere la necessità di vedere l’altro «come egli è agli occhi di Dio». Agire «nel nome di Gesù» significa questo.

E Pfannkuche ha richiamato alla necessità che la preoccupazione, di tutti e tutte, operatori, persone di chiesa, credenti, malati, possa diventare cura. Il dialogo e la cura – ha detto – sono come il cristiano e la cristiana: cristiani non si nasce ma si diventa». Il percorso da fare è quello indicato nelle ultime righe di Matteo: «Ecco, io sono con voi sino alla fine dell’età presente», dice Gesù, e nel suo nome cerchiamo di incontrare l’altro e l’altra. Un percorso lungo e tortuoso, ha proseguito – non miracolistico, che non è alla nostra portata, ma una formazione costante e quotidiana nella sequela di Cristo.

Come si diceva, si è ragionato sull’essere chiesa; come era stato fatto in occasione dell’Assemblea degli iscritti e iscritte a ruolo a fine agosto; come avverrà ancora, come ci è richiesto dal momento di emergenza, ma anche dall’urgenza (che avevamo prima della pandemia) di ragionare sul futuro delle chiese evangeliche in Italia. Il tenore degli interventi al Convegno e le esperienze che hanno narrato ci dicono che ci siamo sempre, che non lasciamo sguarnito lo scenario in cui ci troviamo a testimoniare, le competenze ci sono e anche la militanza. Sappiamo che ci soccorre sempre, ed è indispensabile, lo Spirito santo a darcene forza.