firma_dei_trattati_di_roma_1957

I Trattati di Roma, una storia ecumenica

«Come evangelici non possiamo che esprimere una viva preoccupazione per la crisi dei valori europei che hanno orientato le madri e i padri fondatori dell’Unione europea: la solidarietà tra Stati, la difesa della pace, la tutela dei diritti umani, la libera circolazione delle persone e delle merci in un libero spazio democratico. Credo che lo spirito dell’ecumenismo e la forza dell’Europa politica risiedano entrambi nella capacità di riconoscersi e stare insieme tra diversi. Ecco perché mi piace pensare all’Europa del futuro come a uno sforzo ecumenico, come a un’”unione di minoranze” in costante dialogo tra loro». In un’intervista rilasciata all’Agenzia Nev, il presidente FCEI Luca Maria Negro ha spiegato con queste parole perché il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma appartiene anche ai protestanti italiani.

Per comprendere quanto sia vero, e per non dare per scontata la pace in cui stiamo vivendo, possiamo chiudere gli occhi e tornare con la mente al 1957. Era il 25 marzo, e i governi di Italia, Francia, Germania Ovest, Olanda, Belgio e Lussemburgo convenivano in Campidoglio per lanciare l’Euratom e la Comunità economica europea (CEE). Da una quindicina di mesi il nostro paese era stato accettato dalle Nazioni Unite, il governo era presieduto da Antonio Segni, Einaudi dava alle stampe Il Barone rampante di Italo Calvino ma non si era ancora azzardata a pubblicare Se questo è un uomo di Primo Levi. Fuori d’Italia, il crudo mondo disegnato dalla Guerra Fredda. Solo dodici anni separano la stipula dei Trattati di Roma dalle bombe atomiche sul Giappone; appena quattro mesi prima i carri armati russi avevano calpestato l’Ungheria, traumatizzando le sinistre occidentali. Il muro di Berlino non esisteva ancora, ma in chiave antisovietica gli Stati Uniti premevano per riarmare la «loro» metà di Germania, una prospettiva che i francesi consideravano terrificante. Intanto, da due settimane, il Ghana aveva ottenuto l’indipendenza, avviando la liquefazione del sistema coloniale in Africa. È questo il contesto – ben poco «ecumenico» e ben poco pacificato – in cui sei paesi tra cui il nostro ebbero la saggezza d’immaginare una soluzione continentale: di fondare un potere europeo, incarnandolo in istituzioni genuinamente sovranazionali: una Commissione cui delegare la gestione di un mercato unico che fosse garanzia materiale di una «pace comune»; e un’assemblea di rappresentanti, progenitrice del Parlamento europeo che un ventennio dopo sarebbe divenuto elettivo.

Se si tiene a mente il contesto in cui vennero firmati, si comprende che i Trattati di Roma furono una scelta creativa e generosa, intrapresa da politici lungimiranti per ricomporre un vecchio continente di Stati nazione che nonostante il Cristianesimo e l’Illuminismo nell’arco di un trentennio erano stati capaci di scatenare due guerre mondiali. È su questa «responsabilità nella Storia» che il presidente Negro ha posto giustamente l’accento; ed è al contributo portato dai protestanti italiani all’ideale europeo che in queste settimane sono state dedicate una serie d’iniziative editoriali – prima del mensile «Confronti» poi della rubrica televisiva «Protestantesimo» – incentrate sulla figura di Mario Alberto Rollier, il valdese che sognava gli Stati Uniti d’Europa. Classe 1909, milanese, poco più che trentenne Rollier aderì al Partito d’Azione e quindi alla resistenza giellista delle «Valli nostre». Nell’agosto del 1943, mentre il paese era ancora in guerra al fianco della Germania nazista, fu la sua casa milanese di via Poerio 37 a ospitare la riunione fondativa del Movimento Federalista Europeo, alla presenza di un Altiero Spinelli reduce dal confino di Ventotene e, via Torre Pellice, diretto in Svizzera. Rollier aveva letto e condiviso le edizioni clandestine del Manifesto di Ventotene e per conto di Spinelli e Rossi diresse volentieri «L’Unità europea», il primo giornale dei federalisti; tuttavia, la sua elaborazione politica fu in un certo senso «autonoma» da quella dei federalisti di Ventotene, poiché derivante dalla sua teologia protestante e dalla sua precoce visione ecumenica. Azionismo e Resistenza, europeismo e federalismo furono in Rollier – e in diversi evangelici del tempo – le manifestazioni «pubbliche» del cristianesimo riformato del credente. Una morale nata nel privato della coscienza, fatta di Bibbia e di attualità, quell’indissolubile intreccio barthiano che riecheggia ancora oggi nelle chiese evangeliche del paese, eredi e custodi di quell’esperienza storica. Per usare le autorevoli parole di Giorgio Spini: «Lo stesso federalismo europeo era in certa misura una proiezione di quell’ansia di superamento delle barriere tradizionali che avevano pervaso il protestantesimo dopo la prima guerra mondiale, spingendolo sulla via delle prime conferenze ecumeniche, malgrado le altezzose repulse di Roma papale, l’ostilità violenta del crescente nazionalismo fascista e la chiusura dell’Urss comunista».

Se diversi sono i percorsi degli uomini che la pensarono, la storia dell’integrazione degli Stati europei è senza dubbio una storia ecumenica, una liberante escursione al di là degli steccati ideologici e nazionali della propria epoca. Lo dimostra il fatto che a sessant’anni dall’inizio della riconciliazione europea, gli uomini, i partiti, e il contesto geopolitico che la resero possibile non ci sono più. Resistono invece, più attuali che mai, «gli ecumenismi» religiosi, politici ed economici, di Rollier, Spinelli e dei firmatari dell’Europa avviata a Roma: dei padri che in diverso modo seppero guardare oltre il loro stesso mondo. Con tutti i suoi limiti, anche l’Unione europea – imperfetta e perfettibile, per nostra responsabilità visibilmente in declino – è un progetto che guarda oltre il suo presente. Un’idea coscienziosa. Meritevole, anche da parte evangelica, di studio, passione e impegno.

Immagine: Di Ignoto – Image:Rometreaty.jpg (en.wikipedia), Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=4341475