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Il senso del limite

Nella città di Ōtsuchi, a nord del Giappone, non collegata ad alcuna rete, esiste una cabina chiamata “il telefono del vento”. Molte sono le persone che la visitano per rimanere in contatto con i propri cari persi l’11 marzo 2011 a causa del terremoto e dello tsunami che hanno colpito il Giappone danneggiando la centrale nucleare di Fukushima, la quale ha rilasciato moltissimo materiale radioattivo.

La decontaminazione dell’area interessata durerà fra i 30 e i 40 anni, nel frattempo più di ventimila persone sono morte e molte altre si sono ammalate. Si capisce allora lo sgomento che spinge le persone ad affidare al vento le loro preghiere, i loro ricordi, la loro disperazione e forse anche la loro scoperta che occorre guardare ai propri limiti.

Già, perché l’umanità ormai non pone alcun confine per ciò che riguarda la trasformazione della natura ma è persino riuscita a introdurre prodotti e processi del tutto nuovi, dal plutonio al nucleare, alle manipolazioni genetiche, alterando le leggi dell’evoluzione e aprendo orizzonti imprevedibili di fronte ai quali, però, si avverte la propria inadeguatezza perché si è perso il controllo di ciò che è stato creato. Oggi esiste una sproporzione tra il potere umano di creare e la capacità in seguito di essere all’altezza del proprio potere. Questa sproporzione fa arrancare l’umanità dietro un mondo che procede autonomamente, divora la nostra terra, scioglie i nostri ghiacci, inquina le nostre acque, desertifica immense aree e crea, continuamente, nuovi migranti climatici che si aggiungono a quelli delle guerre delle quali, se guardiamo bene, sempre noi siamo i promotori.

Ciò che abbiamo creato ci sfugge di mano e noi non siamo più in grado di immaginare e prevedere gli effetti della direzione intrapresa dal mondo il cui moto sembra non dipendere più da noi.

Il nostro ingegno, la nostra tecnica, la nostra inventiva si sono trasformate da promessa di emancipazione a minaccia perché siamo inconsapevoli dei rischi portati da ciò che abbiamo creato, visto che non riusciamo a calcolarli davvero tutti. E questo appare evidente proprio a Fukushima, dove dopo dieci lunghi anni nessuno riesce a bloccare le fuoriuscite e il continuo riscaldamento del nocciolo nucleare che continua a riversare in mare sostanze radioattive che lo rendono inabitabile. Nel frattempo circa 200.000 persone sono state costrette a evacuare la zona, nonostante avessero costruito la propria vita, tassello dopo tassello, relazione dopo relazione proprio nei paesi e nelle cittadine vicino alla centrale di Fukushima.

Forse bisogna affermare un’etica post-antropocentrica che faccia attenzione a tutti i soggetti viventi e forse occorre smantellare il principio distruttivo che abbiamo nei confronti di ciò che non è umano e imparare invece a nominare tutte le interconnessioni che ci permettono di stare su questa splendida terra. Fatto sta che dobbiamo fare i conti con i nostri limiti perché serve la consapevolezza della necessità di amare e di conservare il nostro mondo se vogliamo continuare a viverci e ad abitarlo.

Persino il Dio della storia, nel quale riponiamo la nostra fede, ha deciso di tracciare un segno che gli ricordasse il limite da non superare per conservare in vita l’umanità. Ha reso l’arcobaleno simbolo del cambiamento di mentalità, simbolo di un rapporto da intendere come prezioso, simbolo di quello che era e rimane una relazione imprescindibile. Se Dio ha avuto il coraggio e l’ardire di porsi dei limiti, chi siamo noi per immaginare di poterne fare a meno?

Dobbiamo tornare sui nostri passi e disegnare parecchie linee di confine oltre le quali non avanzare. Con lo stesso rigore con il quale i maschi non devono violare il corpo e il carattere di una donna, dobbiamo costruire un’alleanza in grado di riconoscere l’altro da noi, il verde che ci regala l’ossigeno per rimanere in vita, l’acqua che ci permette di rigenerare le cellule, gli animali che ci donano amore e compagnia e per chi li mangia, con molta parsimonia s’intende, anche proteine ad alto assorbimento e aminoacidi essenziali.

Avere dei limiti ci rende attenti a quell’indissolubile alleanza con tutto ciò che è altro da noi del quale è impossibile fare a meno; nel contempo i limiti ci permettono di avere una misura, che non è infinita, come molti hanno pensato in passato, di ciò che possiamo o non possiamo consumare, di come controllare ciò che abbiamo creato. Solo così non avremo altre Fukushima, e neanche il bisogno di affidare al vento il dolore per coloro che abbia- mo perso dopo aver smarrito i nostri limiti.

 

Foto di IAEA Imagebank, la centrale di Fukushima