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La fame dei nuovi tempi dentro i riflessi che parlano di noi

In un rapporto Internazionale di inizio 2021, dall’inizio della pandemia di Covid-19, bambini e bambine di tutto il mondo hanno perso in tutto 112 miliardi di giorni di scuola; pari a una media di 74 giorni persi a testa a causa delle chiusure degli istituti. Chiusure che sono state sì sostituite con la didattica a distanza ma che hanno portato disastrose conseguenze nelle vite e nel futuro dei bambini e di tutti i Paesi coinvolti. Save the Children dichiara inoltre che “in assenza di interventi, ci sarà una perdita di apprendimento equivalente a 0,6 anni di scuola e un aumento del 25 per cento della quota di bambini e bambine della scuola secondaria inferiore al di sotto del livello minimo di competenze. Le perdite sono maggiori tra gli studenti provenienti da famiglie meno istruite, a conferma delle preoccupazioni per l’iniquità dell’impatto della pandemia sui bambini e sulle famiglie”. Un quadro oscuro per i tempi futuri che verranno e ci coglieranno impreparati.

Gaia ha 12 anni, una madre che si chiama Antonia e lotta per le sue battaglie personali con ferocia e passione, un padre in sedia a rotelle per via di un incidente sul lavoro (in nero) e tre fratelli attaccati alla vita con la disperazione innocente dei bambini (i gemelli Maicol e Roberto) e col desiderio di perdersi in pezzi per poi ricomporsi (il fratello maggiore, Mariano).
La vita di Gaia che ha i capelli rossi, un corpo che la cambia dentro ancora prima di cambiare fuori, avanza arrancando tra le poche pareti di una casa incastonata in un seminterrato buio e soffocante. La preadolescenza, la sensazione di inadeguatezza e le ingiustizie sociali che sono intime fino a quando non vengono smascherate sulla porta di casa o fuori da scuola.

Quando un giorno la madre rientra con la novità di un trasloco la vita di Gaia cambia e inizia a muoversi velocemente. Prima una casa enorme, inimmaginabile nel centro della Città, della capitale bella ma sempre lontanissima. Poi per un feeling mancato, per un prezzo troppo alto, il trasferimento ad Anguillara; un paese piccolo, un arto della periferia romana che offre un lago – di Bracciano – i volti dei suoi abitanti stantii e una nuova dimensione straniera ma accessibile, facilmente raggiungibile. E Gaia si adatta, cambia la forma delle ossa, impara gli orari degli autobus e dei treni per arrivare a scuola e scrolla via con un gesto di fastidio il passato di amicizie, di ricordi e zavorre piccole e grandi che non esistono più.

Ciò che Giulia Caminito (Roma, 1988) riesce a realizzare con “L’acqua del lago non è mai dolce” è un affresco di una vita di provincia sbavata, sporca. Il racconto di una vita acerba che si aggrappa al desiderio ardente che quasi si fa ossessione del sapere e del poter ottenere tutto ciò che non è concesso, tutto ciò che costa troppo, che è di un altro sempre più ricco, più fortunato, più bello e più pronto di te. La storia di Gaia si incrocia con le piccole ingiustizie quotidiane del mondo dell’infanzia che si sgretola e si mischia con i dizionari imparati a memoria per essere la migliore, la ribellione che cresce sottopelle e poi si sfoga in pugni e baci mal dati, in nomi dimenticati per soffrire meno, in rapporti graffiati per lasciare un segno. Una storia, un romanzo sull’identità costruita in falcate, a più riprese, senza potersene pentire perché il tempo non c’è e nemmeno il fiato. Una formazione in corsa, perché tutto rischia sempre di sfuggire, di sgusciare via come l’acqua che è presagio e abitudine, segnale di pericolo e riposo.

Un testo sul possibile che si raggiunge solo con le unghie e con i denti, con lo studio e con le fughe, con l’immagine di sé riflessa in un mondo che non ci sa ma in cui ci dobbiamo adattare per poterci vivere dentro.

L’acqua del lago non è mai dolce, Giulia Caminito, Bompiani, 304 p, 18 euro