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Il valore della comunità

Psicologia della recidiva. Così Romano Màdera, filosofo e psicoanalista, descrive questo secondo (o terzo) tempo della pandemia.

Da marzo dell’anno scorso, quando tutti i programmi, gli impegni, i viaggi, le scuole, sono state sospese, un pensiero condiviso è stato quello di dare il meglio di sé, metterci le energie, la solidarietà, vivere il tempo in maniera diversa, provare a rendere il contagio anche un’occasione per assumere nuovi atteggiamenti, fare nuovi gesti. Le chiese, in particolare quelle delle zone più colpite all’inizio, si sono organizzate.

Collaborazione, interdenominazionalità, ecumenismo hanno caratterizzato le varie iniziative: meditazioni bibliche giornaliere da inviare tramite whatsapp, culti online, che poi diventavano occasione di inoltro a familiari e amici di pensieri di incoraggiamento, riflessioni comuni sulle possibilità di conversione che il tempo della pandemia poteva offrire alle persone singole e alle chiese, in termini di attenzione alla mano umana sul creato, alle dinamiche di ingiustizia sul lavoro, alle disuguaglianze che sono emerse lampanti.

Poi, sembrava che l’estate potesse essere quel nuovo respiro che invece è stato arrestato dalla “ricaduta”, questa volta ancora più estesa, perché ha coinvolto ancor più profondamente il territorio nazionale, insieme all’Europa e al mondo intero. E, come quando si ha una ricaduta di un male che si credeva superato, le reazioni sono state di stanchezza, di insoddisfazione, di angoscia. A che cosa è servito tutto questo?

Da ottobre in poi, dopo una nuova e speranzosa riapertura, le chiese con i locali più grandi e aerati hanno potuto ritrovarsi, a numeri ridotti, cercando di re-immaginare il presente e il futuro: le chiese con locali piccoli, aerazione ridotta, sono rimaste sulle piattaforme digitali, cercando i modi più inclusivi per raccogliere quante più sorelle e fratelli attorno alla Parola di Dio. Si va avanti come si può, forse un po’ più soli, con grande dispendio di energie, nell’attesa che… tutto finisca? Si torni a come eravamo prima?

Eppure, viviamo nel tempo del Risorto. La quotidianità faticosa e a tratti lacerante, chiama non tanto a sopravvivere, a un si salvi chi può che diventa la tentazione del “ritiro a vita privata”, ma a riconoscere che la Resurrezione è la promessa e la vocazione ogni giorno rinnovata.

Come chiese abbiamo la certezza che la luce della Resurrezione è quella che ci permette di vivere la nostra vita in pienezza, di integrare le lamentazioni, il dolore, i vuoti e le difficoltà, la morte perfino, in quella verità sul mondo intero che è l’amore di Dio in Cristo. Questo per me significa stare in ascolto gli uni delle altre, porgere uno sguardo a ogni generazione, riconoscerci in relazione, pur stando in casa, facendo diventare le case singole luoghi di preghiera comunitaria, unite e uniti dallo Spirito di vita.

Lo scacco che può ricevere la sindrome della recidiva è proprio la tenuta della dimensione comunitaria. Considerarsi parte di una comunità più ampia, che pensa, prega, agisce, che non cede alla tentazione individualistica, ma si apre al mondo è il senso che vedo oggi, tanto nelle possibilità di riunirsi in presenza, nei progetti di solidarietà, di accoglienza, di diaconia, quanto nel raccogliersi a distanza, riconoscendo in ogni rettangolo sullo schermo la storia delle persone che sono dall’altra parte e che insieme rendono quello strumento la possibilità di modificare la sua forma in un cerchio che respira le vita di ciascuna e ciascuno.

«I miei giorni sono nelle tue mani», dice il Salmo 31. Più che con parole di rassegnazione, il salmista si rivolge a Dio che, come una levatrice, tiene tra le mani i miei giorni, i giorni di ciascuna e di ciascuno. Il Signore fa nascere il mio giorno, uno dopo l’altro, e, come mani esperte di levatrice, lo lava, gli toglie la vernice che confonde, come una scultrice sottrae da esso la massa caotica: «O Signore fa che non sia confuso», procede il Salmo. Ed ecco che nel momento in cui ricevo in dono il tempo dalle mani di Dio, queste parole risuonano come un affido: «I miei giorni sono nelle tue mani», dice il Signore.

Che cosa significa per me questo? Che cosa significa per le chiese la responsabilità di vivere il tempo di Dio? Il rischio a cui il Dio che tiene il nostro tempo nelle sue mani ci chiama è quello della speranza. Vivere il dono che è la chiesa, questa realtà che non ci appartiene e di cui facciamo parte, al di là di ogni muro o stabile, realtà aperta al mondo, connessione che non verrà mai meno.

Rischiare la speranza è la certezza che Dio ha i nostri giorni nelle sue mani, mani che sorreggono, che rialzano chi è traballante, che confortano chi ha paura. Mani che portano in sé la croce e annunciano la resurrezione, che chiamano a vita nuova e piena, che già è a noi davanti.