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Gli Stati Uniti rientrano ufficialmente nell’Accordo di Parigi

Il 19 febbraio gli Stati Uniti sono ufficialmente rientrati nell’Accordo di Parigi sul clima.

La notizia, di per sé, non è sorprendente: Joe Biden ha ripetuto durante tutta la propria campagna elettorale l’intento di voler revocare la decisione dell’amministrazione Trump, per poi mantenere la promessa: a poche ore dal suo insediamento aveva già avviato il processo per riportare gli Stati Uniti in linea con il principale accordo internazionale sul clima. Ora, a circa un mese di distanza, il ritorno degli Usa è formalizzato.

L’Accordo di Parigi prende il nome dalla capitale francese, dove nel 2015 si tenne la XXI Conferenza delle Parti dell’UNFCCC (detta anche COP 21), durante la quale 196 stati ratificarono uno dei più ambiziosi patti internazionali mai avviati in ambito di contrasto alla crisi climatica. L’obiettivo è quello limitare, nei prossimi decenni, l’aumento medio di temperatura globale, facendo sì che non superi i 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali o, seguendo le successive indicazioni dell’IPCC, al di sotto anche degli 1,5 gradi. Sono numeri all’apparenza insignificanti, ma possono portare a conseguenze drammatiche nel corso del secolo: dallo scioglimento di grandi quantità di ghiacci all’innalzamento del livello dei mari, passando per l’aumento di frequenza e intensità di eventi climatici estremi di ogni tipo, che in parte stiamo già osservando in tutto il mondo. Per di più, trattandosi di cifre che rappresentano temperature medie globali, non mostrano la grande variabilità geografica: in alcune aree, come ad esempio i poli, questo aumento è stato già raggiunto e superato, facendo prevedere crescite molto più significative nell’immediato futuro. Per impedire gli scenari peggiori, come si diceva già negli scorsi giorni, l’impegno è quello di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra.

L’accordo era stato negoziato, per gli Stati Uniti, dall’amministrazione Obama, ma il successore Trump portò avanti una linea notoriamente critica nei confronti delle politiche ambientali più stringenti, oscillando, nel corso della sua presidenza, tra una tiepida valutazione del problema della crisi climatica e un netto negazionismo sulla sua stessa esistenza. Il 4 novembre del 2019 avviò quindi il processo per far uscire la nazione dall’accordo. Il documento, però, proprio per far fronte ai possibili cambi di orientamento dei vari governi, prevede una serie di clausole che rendono difficoltoso tirarsi indietro: innanzitutto, non è possibile ritirarsi prima dei tre anni dalla ratifica, motivo per cui Trump non potè cominciare la pratica all’inizio del proprio mandato; inoltre, in caso di ritiro, la decisione non diventa attiva prima di un intero anno.

Questo significa che soltanto il 4 novembre 2020 (ovvero, proprio nella settimana che avrebbe sancito la fine del mandato di Trump a favore dello sfidante Biden) gli Stati Uniti sono formalmente usciti dall’accordo. La vittoria di Biden ridimensionò subito la gravità della cosa: erano note le sue intenzioni a tal proposito. Ma ciò non significa che il cambio di marcia ufficiale della nuova presidenza riguardo alle politiche climatiche non fosse atteso con una certa apprensione, o che la conferma del 19 febbraio non sia stata accolta con diffuso favore ed entusiasmo.

António Guterres, segretario delle Nazioni Unite, ha parlato di “un giorno di speranza”, mentre Christiana Figueres (che nel 2015 guidava la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e fu responsabile della principale spinta alla ratifica dell’accordo) sottolinea l’aspetto simbolico dell’evento e il ruolo che potranno avere gli Stati Uniti nell’influenzare il resto del mondo verso la transizione energetica.

Il tempo a disposizione di Biden, però, comincia a farsi sempre più stretto: l’amministrazione Trump ha congelato i progressi avviati da Obama, o molto spesso li ha fatti gravemente retrocedere. Per molti aspetti, il lavoro è appena cominciato.

Foto di Arnaud Bouissou – MEDDE / cc-zero, Cop21 di Parigi