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Una canzone, una preghiera, una speranza

Chissà se Master KG (il dj ventiquattrenne Kgaogelo Moagi) e Nomcebo Zikode, il produttore e la cantante sudafricani di “Jerusalema” si aspettavano un successo planetario. Di certo, quando la canzone è uscita nel novembre 2019, nessuno poteva immaginare che di lì a poche settimane sarebbe scoppiata una pandemia che avrebbe stravolto le vite, e che proprio quella canzone, rimbalzando da un angolo all’altro del globo, sarebbe diventata un inno di gioia, ma anche di resistenza e di preghiera.

Già, perché le parole (ne avevamo parlato in ottobre con un articolo di Virginia Mariani che raccontava come è diventata la base per un insegnamento interdisciplinare nella sua scuola) suonano proprio come un’invocazione a Dio: «Gerusalemme è la mia casa / guidami / portami con te, / non lasciarmi qui / Il mio posto non è qui / il mio Regno non è qui / guidami / portami con te».

Gerusalemme è la città ideale, la città celeste, ma anche la città “terrena” sacra a tre religioni, e questo esprime, insieme alla speranza verso un mondo migliore, un’aspirazione all’unità, alla fratellanza, in tempi di così grande divisione.

Poco importa se le parole in venda (una lingua bantu parlata in Sudafrica e Zimbabwe da circa un milione di persone) non le capisce quasi nessuno: la sonorità di questa lingua, priva delle cosiddette “consonanti click”, prodotte facendo schioccare la lingua contro il palato o contro i denti, ha indubbiamente contribuito al successo insieme al suo ritmo e alla melodia dolce ma al tempo stesso incalzante.

Ma c’è un elemento che ha consentito il salto di qualità, dopo i primi mesi “in sordina”: il video su Tik Tok di un gruppo di giovani ballerini angolani (“Fenomenos do Semba”), che ha inventato la “Jerusalema Dance Challenge”, impostando la coreografia come una danza improvvisata mentre mangiavano con piatti e bicchieri in mano: un’immagine di normalità, nonostante tutto.

Nell’estate 2020, quando molti speravano di essersi lasciati alle spalle il peggio dell’epidemia è risuonata dal Portogallo alla Romania, alla Giamaica, al Canada, alla Palestina, alla Germania, all’Irlanda, al Ghana, con video carichi di emozione come quelli che hanno coinvolgo il personale sanitario di paesi come Zimbabwe, Sudafrica, Italia, Repubblica Democratica del Congo, Usa, Australia, Puerto Rico.

Di video in video, grazie ai social, si è rivelata qualcosa di più dellennesimo tormentone che dura il tempo di una stagione: il messaggio è stato condiviso infatti dai gruppi più diversi: studenti, medici e infermieri, poliziotti, vigili del fuoco, persino suore, frati e… pastore e pastori in toga. Nata come brano gospel nell’ambito delle chiese evangeliche, dopo avere fatto il giro del mondo “Jerusalema” non poteva che tornare in chiesa.

In Svizzera, alcuni pastori riformati hanno raccolto la sfida, seguiti dai parrocchiani, che dopo essersi impratichiti a casa hanno chiesto di provare anche in chiesa. Bambini e anziani hanno condiviso quella che per molti è stata una vera danza liturgica, una vera preghiera, con anche (diciamolo!) una bella dose di divertimento.

Come racconta Paolo Tognina su Voce evangelica, l’idea è nata dal collettivo riformato #churchunited, avviato a Pentecoste 2020 e animato dalle pastore Mirja Zimmermann e Priscilla Schwendimann. Insieme ai culti online, i pastori aderenti (una cinquantina, inclusi diversi collaboratori ecclesiastici) hanno rilanciato in tutta la Svizzera la sfida (il loro video si trova su YouTube con il titolo Jerusalema Challenge. Swiss church edition”), sostenuti anche dalla nuova presidente della Chiesa evangelica riformata in Svizzera, Rita Famos.

La notizia ha varcato l’Oceano, ma proprio gli Stati Uniti, patria della musica di massa, potrebbero essere la frontiera più difficile da superare: per gli statunitensi non è scontato cantare in una lingua sconosciuta, almeno è quanto sostiene la pastora Catherine McMillan, una delle pastore coinvolte nel video, scozzese cresciuta e formatasi negli Usa, ora in servizio in Svizzera nella chiesa riformata di Zurigo (qui l’articolo della Presbyterian Church): «Gli Usa sono sempre stati un po’ isolazionisti in fatto di cultura; le canzoni in altre lingue non vengono suonate molto e anche i film stranieri con sottotitoli non sono molto popolari». E lancia un appello ai colleghi americani: «Lanciate la “Jerusalema Dance challenge” per me fra i pastori riformati in America, da una costa all’altra». Chissà se l’invito verrà raccolto: e saranno pronti a farlo anche i riformati italiani?