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Etiopia. Nel Tigray la situazione è critica

All’inizio di novembre 2020, il governo etiope, guidato dal primo ministro Abiy Ahmed, aveva lanciato un’operazione militare nel Tigray, la regione settentrionale dell’Etiopia, governata da decenni dal Fronte di liberazione del popolo tigrino (TPLF) con ampi margini di autonomia.

Da allora, il territorio, che confina con il Sudan a ovest e l’Eritrea a nord-est, è diventato pressoché inaccessibile tanto per gli operatori umanitari, impegnati da molti anni in diversi settori, da quello sanitario alla sicurezza alimentare, fino al supporto dei rifugiati eritrei in fuga dal regime di Isaias Afewerki, quanto per i giornalisti, rendendo invisibili le conseguenze del conflitto.

Ufficialmente, la guerra è terminata il 27 novembre, ma sono molte le voci secondo cui si continua a combattere nelle zone più remote, mentre si fanno sempre più insistenti le testimonianze di massacri di civili, saccheggi e deportazioni di rifugiati eritrei che sarebbero stati commessi dalle truppe eritree, alleate dei soldati etiopi. Dal governo etiope, intanto, arrivano smentite sulle violazioni che si pensa siano state commesse, ma il rifiuto opposto a ogni tentativo delle organizzazioni internazionali di accedere all’area lascia molti dubbi sull’operato di Addis Abeba.

Carmen Bertolazzi, presidente dell’IISMAS (Istituto Internazionale Scienze Mediche Antropologiche e Sociali), che conduce da anni progetti di cooperazione in Tigray, chiarisce che tutte le fonti di informazione vanno verificate, ma a oggi non ci sono strumenti a disposizione. «L’Europa – spiega – ha chiesto di mandare una propria delegazione di parlamentari per verificare quanto è accaduto e quanto sta accadendo, ma a oggi non è stato possibile».

Quali sono le notizie in arrivo dal Tigray, tenendo presente che non sono a oggi verificabili in modo indipendente?

«Quello che sappiamo è che si sta ristabilendo un’apertura delle comunicazioni, si riesce a telefonare in alcune città, ogni tanto funziona Internet. Si racconta che le città sono tutte sotto controllo dell’esercito governativo, ma che in alcune zone più remote e montuose ancora si combatte. Il TPFL non avrebbe combattuto nelle città per tutelare la popolazione e si sarebbe ritirato in zone remote, dove si dice che ancora ci siano dei combattimenti in corso. Molti dei dirigenti hanno una grossa taglia sulla loro testa, ma non c’è notizia di arresti o di morti. Insomma, le notizie non ci sono».

Eppure, cominciano a emergere alcune notizie, per esempio il coinvolgimento dell’esercito eritreo.

«Diciamo pure che è una certezza. C’è stato un ingresso autorizzato da parte di uno Stato straniero, l’Eritrea, e c’è stata una protesta formale dell’amministrazione Biden che ha richiesto espressamente all’Eritrea di ritirare il proprio esercito. L’Europa invece ha bloccato i fondi di sostegno al bilancio dello Stato etiope, fino a quando da Addis Abeba non permetteranno una missione di monitoraggio nel Paese. Inoltre, ci sono le continue denunce dell’Unhcr, che coordina le attività dei campi profughi in Sudan alla frontiera: lì ci sono i giornalisti e si raccolgono le testimonianze di tutte le persone che sono scappate dal Tigray. Queste testimonianze sono durissime, violentissime, si parla di morti, saccheggi, stupri, massacri. Le denunce che vengono dal campo profughi del Sudan sono pesanti. Peraltro, con il Sudan si è aperto un altro fronte di guerra perché vi è un antico contenzioso sulle terre. Quelle zone erano state riprese da parte degli Amara, un’etnia etiope che vive al confine con il Sudan, mentre pochi giorni fa il Sudan con le sue truppe ha ripreso quelle terre. E poi c’è un’altra vicenda, quella dei giovani somali mandati a combattere in Tigray. C’è stata una manifestazione delle madri che non hanno più avuto notizie, ma che poi hanno avuto un risarcimento per la morte dei loro figli. Diciamo che si è scombussolato tutto il quadro geopolitico del corno d’Africa in maniera molto pesante e non si sa come si andrà a ricucire».

Al di là del quadro geopolitico, sul territorio vive una popolazione che viene schiacciata sotto diversi piedi e messa sotto pressione da diverse direzioni. Si parla con insistenza di un accanimento particolare dei militari nei confronti delle strutture sanitarie. Che cosa sappiamo?

«Parliamo sempre di notizie che andranno ovviamente confermate, soprattutto in riferimento a chi le ha compiute. Ognuno, infatti, dice che è colpa dell’altro, ma quel che sappiamo è che sono stati svuotati tutti gli ospedali e i centri per la salute, tutti i punti di riferimento della popolazione sia nelle città che nelle aree remote e soprattutto è stata portata via tutta la strumentazione, che già era scarsa. Parliamo dei letti di degenza, degli ecografi, delle poche camere operatorie, quindi gli ospedali e i centri per la salute non possono più operare. E poi non ci sono più farmaci, il che provoca ovviamente un’altissima mortalità delle persone che ne hanno bisogno per sopravvivere. Pensiamo ai diabetici: se non prendono l’insulina dopo un po’ vanno in shock anafilattico e per loro è un rischio di vita. Il fatto che non ci siano più farmaci è una condanna a morte, un’agonia lenta».

Per chi, come voi, è impegnato da molti anni proprio nel costruire un sistema sanitario dignitoso, capace di tutelare la salute soprattutto dei più vulnerabili, che cosa significa tutto questo?

«Per noi è un grande dolore, perché proprio con i fondi dell’Otto per Mille della Tavola valdese avevamo supportato molte parti del sistema sanitario, sia in ospedali grandi come l’ospedale universitario di Axum, dove era stato messo in piedi un ambulatorio e laboratorio di dermatologia, sia nell’ospedale di Sheraro, dove sono state fatte tantissime iniziative. L’ultima azione poi era stata proprio fornire di attrezzature mediche un ospedale di un’area remota, Gedena, inoltre proprio a febbraio, con l’azione di monitoraggio della Tavola, avevamo inaugurato due case della maternità per le donne che hanno delle gravidanze a rischio. È stato fatto un grande investimento proprio sulla salute, in particolare la salute delle donne e dei bambini. E ora l’idea che tutto questo possa essere andato distrutto ci sembra veramente una cosa terrificante, perché colpisce la vita delle persone e soprattutto delle persone più deboli».

Da dove si potrà ripartire?

«È molto difficile dirlo. Sappiamo che Medici Senza Frontiere, immagino con il personale locale non tigrino ma etiope, è riuscito ad arrivare in Tigray e a portare dei farmaci. Sappiamo che c’è anche il problema della malnutrizione, se non proprio della denutrizione, perché già è una zona povera, che prima dell’inizio di questa guerra aveva affrontato l’invasione delle locuste, che avevano distrutto i raccolti. Si dice che durante la guerra siano stati distrutti ancora una volta i raccolti e ammazzati o rubati tutti gli animali. Insomma, è un’economia agricola che è stata distrutta. Quindi ai danni della guerra si aggiungono quelli alla sopravvivenza quotidiana. Noi non sappiamo quando potremo ritornare lì, saremo pronti, ma per il momento non è possibile per nessuna Ong fare delle previsioni. Quel che sappiamo è che quando si aprirà si dovrà lavorare sull’emergenza, mentre noi avevamo molto investito sullo sviluppo della vita delle persone e dell’economia della popolazione. È come tornare indietro di decenni».

Immagine: Wikimedia Commons