girardet

Una teologia che proviene dalla biografia

«Come canne al vento» è sì un libro sulle canne, cioè sull’umana condizione, ma è anche un libro sul vento. E non un vento qualsiasi, ma il vento di Giovanni 3, 8: «Il vento soffia dove vuole, e tu ne odi il rumore, ma non sai né da dove viene né dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito». E quindi due sono le domande, la prima è la seguente: quale umanità si rivela di fronte all’estrema esperienza di un Lager? La seconda domanda è, invece, sul vento, sullo Spirito, quindi su Dio: quale Dio può sopravvivere di fronte all’estremo?

Come riporta Barbara Battaglia nella sua intervista alla figlia Hilda, dal campo di Sandbostel, un giovane sottotenente valdese, Giorgio Girardet viene deportato nei lager della Germania nazista per il rifiuto di continuare la guerra a fianco dei tedeschi e dei repubblichini di Salò. In quello che fu anche il campo di Alessandro Natta, Giovannino Guareschi, Giarico Tedeschi e molti altri, Girardet fu il pastore di una piccola rappresentanza evangelica. La figlia ha riportato alla luce quella testimonianza, raccolta nel libro, appena uscito, “Come canne al vento – diari della speranza di un pastore evangelico nei lager”, edito da Claudiana. 

Nel rispondere alla prima domanda debbo sottolineare una dissonanza generativa nell’impostazione del giovane Giorgio Girardet. Mi spiego: il pastore, ancor prima che teologo, si interroga sulla realtà, che interpreta a partire dalla radicale contrapposizione tra l’umano e Dio. L’umano riassunto nella formula paolina: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio (Romani 3, 23) e l’azione di Dio, unilaterale, rappresentata dall’ora però!: «Ora però, indipendentemente dalla legge, è stata manifestata la giustizia di Dio» (Romani 3, 21). La partita sembra giocarsi qui, in questo luogo del contrasto. Tuttavia la dissonanza è in un passo del diario, rappresentativo di altri passi, meno espliciti, in cui Girardet dice: «L’uomo non si abbatte, per quanto avvilito, risorge, non si assoggetta alla morte, vuol vivere; si ricostruisce un mondo, cento volte che sia distrutto, nel quale possa vivere liberamente, spaziare» (25 ottobre 1944). Qui, come nello straordinario libro di Tzvetan Todorov, Di fronte all’estremo, emerge un’etica, intesa come la capacità di esseri umani, né santi né eroi, che attraversando l’inferno, furono capaci, malgrado tutto, di atti esemplari anche per la nostra morale quotidiana: la sollecitudine verso l’altro, la salvaguardia della propria dignità e l’attività dello spirito. Sarebbe davvero bello poter porre direttamente a Girardet la domanda su questa dissonanza che, probabilmente, merita non di essere risolta, ma conservata rispettosamente.

Nel rispondere alla seconda domanda, sul Dio che sopravvive al Lager, non posso che fare appello ai miei ricordi di studente in Teologia, quando leggendo il libro di Jürgen Moltmann Il Cristo crocifisso, ed ero chiamato a fare i conti, senza sconti, con la sopravvivenza di Dio dopo Auschwitz. Mi restò impressa la citazione che Moltmann fece di Elie Wiesel e del giovane impiccato, il quale, passando i minuti, si dimenava, tormentato dal cappio. Qualcuno si chiedeva con insistenza: Dov’è Dio? Poi si udì una voce: «Dov’è? È qui …! È appeso alla forca…!». E in tal modo anche Girardet affronta la madre di tutte le questioni, appellandosi al kerygma (l’annuncio) – e con quale insistenza! –, che si traduce in parola della croce e, quindi, nel Cristo crocifisso.

Due grandi temi, dunque: la condizione umana e Dio dopo il Lager, che ci fanno dire senza alcuna esitazione che il libro di Girardet è un libro di teologia. Di una teologia come biografia. O forse sarebbe meglio dire: di una biografia come teologia. Questa formula ricorda il titolo del libro di James McClendon, intitolato Biografia come teologia. Anche se i diari ritagliano solo una piccola parte della lunga biografia di Girardet, essi sono sufficienti per lasciare emergere il carattere del discepolo di Gesù Cristo. Di un uomo di fede con le sue forti convinzioni, le sue quotidiane pratiche, le sue domande, la sua generosa disponibilità, il suo impegno sociale, la sua responsabilità in quanto umano. Ecco perché alla fine il suo diario è un testo di teologia, di una teologia che si scrive prima con il corpo e poi con la penna.

Una teologia pastorale, non solo nel senso di una teologia che ha come punto focale la pratica della cura, ma anche come di una teologia per i pastori e le pastore, chiamati a imparare il “difficile mestiere”, i quali si misurano con la propria miseria, con la sovrabbondanza della Parola, con gli alti e bassi, con l’amore per la comunità, con lo studio e la preghiera, con il «guai a me se non evangelizzo» (I Corinzi 9, 16), con l’imperativo di educare. Ma, soprattutto, con il diventare discepoli e discepole in prima persona. «[…] domani, come tutte le domeniche, che me la senta o no, […] devo predicare. Verranno ormai uno sparuto gruppetto. […] Saranno lì, distratti e profani … eppure lì dovrò rinnovare la Parola di Dio! E per bocca mia! […] predicherò, perché a questo sono stato chiamato…» (sabato 6 gennaio 1945). Che altro aggiungere?

* G. Girardet, Come canne al vento. Diari della speranza di un pastore evangelico nei lager. A c. di Hilda Girardet, prefazione di B. Rostagno, postfazione di M. Abate. Torino, Claudiana, 2020, pp. 255, euro 18,00.