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Un golpe nel labirinto birmano

A distanza di un giorno dal colpo di Stato militare in Myanmar, l’esercito sembra avere la situazione sotto controllo. Complice anche la sospensione di Internet e telefono, non si hanno notizie di grandi proteste o di situazioni critiche che possano far pensare a nuovi cambiamenti nei prossimi giorni.

Durante la giornata di lunedì, il Tatmadaw, l’esercito birmano, aveva arrestato la leader della Lega Nazionale per la Democrazia, la Premio Nobel per la Pace 1991 Aung San Suu Kyi, insieme ad altri vertici del partito, assumendo il potere politico e dichiarando un anno di stato d’emergenza nel Paese. Il capo delle forze armate birmane, il generale Min Aung Hlaing, ha sostenuto che alla base di questa azione, che ha sorpreso gran parte della politica occidentale, ci siano brogli e irregolarità nelle elezioni dello scorso 8 novembre che la commissione esaminatrice non aveva riscontrato. Il colpo di Stato, quindi, è stato giustificato secondo gli articoli 417 e 418 della Costituzione di compromesso del 2008, che danno il potere al presidente di proclamare lo stato d’emergenza se si verifica una situazione che rischia di “disintegrare l’Unione o disintegrare la solidarietà nazionale o causare la perdita di sovranità”. Di conseguenza, tutti i poteri sono passati nelle mani dell’esercito.

Il segretario generale dell’Onu, António Guterres, ha affermato che il colpo di stato, avvenuto un decennio dopo l’inizio della transizione del Myanmar dal governo militare diretto, ha rappresentato «un grave colpo alle riforme democratiche» nel Paese. Ma, al di là delle dichiarazioni politiche, è difficile capire le cause di quanto accaduto.

Come racconta il giornalista Carlos Sardiña Galache, uno tra i più esperti osservatori della situazione birmana, sono molti i punti ancora da capire.

A prima vista, infatti, questo rovesciamento del risultato elettorale non porta immediati vantaggi all’esercito, che in base alla Costituzione del 2008 conservava già un ampio potere. Nonostante nelle ultime elezioni la Lega Nazionale per la Democrazia avesse ottenuto quasi l’80% dei seggi in Parlamento, relegando il partito che rappresenta l’esercito (Unione della Solidarietà e dello Sviluppo) a una posizione marginale, il sistema creato con la transizione politica del 2008 ha sempre garantito un ruolo decisivo al Tatmadaw. Inoltre, il partito di Aung San Suu Kyi non ha mai dato l’impressione di voler o poter minacciare quel modello.

A colpire in questa situazione è il fatto che si tratti di un colpo di Stato formalmente legale, basato sulla possibilità per l’esercito di dichiarare unilateralmente una situazione di “rischio” per l’Unione. Tuttavia, l’idea di “legalità” nel contesto birmano è piuttosto sfumata, perché rappresenta poco più di una formalizzazione del potere, quindi molto flessibile in base ai desideri di chi sta al vertice. Tuttavia, il Tatmadaw deteneva già il potere anche prima del colpo di Stato.

Esiste tuttavia un’altra ipotesi, direttamente legata al generale Min Aung Hlaing, che potrebbe aver agito per interesse personale. Secondo una fonte locale citata dal South China Morning Post, quotidiano di Hong Kong, dopo le elezioni di novembre «Non c’era nessuna strada per lui di assumere un ruolo di primo piano nel governo utilizzando gli strumenti costituzionali».

Era stato lo stesso Min Aung Hlaing, a novembre, a spegnere le accuse di brogli e irregolarità lanciate dal suo partito nei confronti del processo elettorale, affermando che «i risultati della volontà popolare vanno rispettati». Difficile, anche in questo caso, capire che cosa sia cambiato.

Di certo, la sua figura, così come in generale l’immagine dell’esercito, non godono di grande popolarità nel Paese, a differenza di Aung San Suu Kyi, duramente criticata all’estero ma estremamente apprezzata in Myanmar, almeno dalla maggioranza Bamar, che rappresenta il nucleo del potere.

Nel 2017, quando l’esercito lanciò la propria durissima offensiva contro la popolazione Rohingya, la minoranza musulmana dello Stato del Rakhine, 730.000 persone vennero costrette a fuggire in Bangladesh, dando vita a un’enorme emergenza umanitaria e al più grande campo profughi dell’Asia, quello di Cox Bazar.

Min Aung Hlaing fu il volto dell’azione, al punto che le Nazioni Unite stanno indagando su un possibile piano di genocidio, ma l’occidente, che si aspettava una presa di posizione da parte di San Suu Kyi, rimase deluso, scoprendo una sostanziale unità d’intenti tra le due colonne del potere birmano. Eppure, quell’esperienza non ha scalfito la popolarità della leader della Lega Nazionale per la Democrazia.

A novembre, subito dopo le elezioni, Carlos Sardiña Galache raccontava che «Il sostegno interno di San Suu Kyi è enorme». «Ci sono molte ragioni – spiegava – ma prima di tutto dobbiamo considerarlo separato dalla perdita di sostegno internazionale, che invece è diminuito considerevolmente a causa dell’appoggio di San Su Kyi ai militari nella questione Rohingya, in particolare alla cosiddetta “netta separazione”, ovvero l’espulsione di massa della maggior parte di loro in Bangladesh. Ecco, questo non ha molta importanza in Birmania e non intacca il suo prestigio all’interno del paese. Il motivo è semplice: i Rohingya sono ampiamente disprezzati dalla maggior parte della popolazione birmana, quindi la sua presa di posizione contro i Rohingya non influenza in negativo la sua popolarità in Birmania.

Ora, a parte la questione Rohingya, il suo governo è stato una delusione su molti fronti, non è stata in grado di cambiare il paese, si è dimostrata abbastanza autoritaria, il che è qualcosa che alcuni di noi avevano già sospettato prima».

Tuttavia, il sostegno interno è intatto. «Penso che ci siano tre ragioni: la prima è che nessuno dimentica i sacrifici che ha fatto prima, nella sua lotta contro la dittatura militare; la seconda è che le persone la paragonano ancora ai militari, la gente dice ancora “sì, non va bene, ma i militari sono molto peggio ”. E c’è una terza ragione: esiste un accordo di condivisione del potere con i militari che non è realmente un accordo, è la Costituzione istituita dai militari prima che avvenisse la transizione. Questo modello lascia pochissimo spazio di manovra al governo civile, quindi se qualcosa non va bene è sempre possibile incolpare i militari. Inoltre c’è una questione di carisma personale, perché San Su Kyi è la figlia dell’eroe nazionale e nel frattempo non è emerso alcun leader politico che abbia la sua popolarità. Va detto che non è emerso principalmente a causa sua, ma comunque oggi nessuno può sfidarla sul piano della popolarità».

È difficile immaginare che cosa succederà ora: i militari ripristineranno il governo civile tra un anno, come promesso, oppure manterranno il controllo diretto sullo Stato? Quel che è certo è che, ancora una volta, la partita è tutta interna alla maggioranza Bamar, lasciando ai margini tutte le minoranze del Myanmar, “unione” solo di nome ma non di fatto.