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Fototessere 15: il Vangelo, guida dei nostri passi

Prosegue la serie di incontri dialogati che Paolo Ricca realizza per Riforma e che ha visto finora i ritratti di Maria Paola RimoldiAnnapaola CarbonattoMatteo FerrariFulvio FerrarioGabriella CaramoreVito TamboneAndrea DemartiniMarco Cassuto MorselliShangli XuGiorgio TournFra Lorenzo Ranieri e Alba CordaroAdelina Bartolomei, Pierluigi Mele: uomini e donne che hanno dei ruoli conosciuti all’interno delle chiese evangeliche in Italia o nell’ambito ecumenico, ma anche persone che, pur non avendo incarichi conosciuti ai più, portano con sé un’esperienza di fede significativa per tutti e tutte noi. Oggi è il turno delle “Sorelle senza nome”. Buona lettura!

La Comunità di fede che ha scelto il nome di “Sorelle senza nome” proviene, all’origine, da una piccola Congregazione missionaria italiana che in Brasile, Libano, Iran e altrove si occupava dell’educazione della gioventù. Dopo le vicende narrate nell’intervista, vivono in Italia dal 1973. Sono oggi 19 Sorelle, di cui 15 brasiliane, 2 italiane, una russo/iraniana e una libanese. In Italia sono impegnate nella difesa dei Diritti umani con la Fondazione internazionale Basso, in progetti di solidarietà con il Brasile, e nella cura di anziani, malati mentali, disabili e bambini con difficoltà di apprendimento. Oggi, tutte pensionate, continuano, come volontarie i loro impegni precedenti, occupandosi anche di immigrati. La loro è, come è sempre stata, vita per gli altri, sulle orme di Gesù. All’inizio vivevano in due Comunità, una a Bastia vicino ad Assisi, l’altra a Roma. Dal mese di giugno 2020 si sono riunite e vivono tutte nella casa di Roma, che si trova in piazzale Antonio Tosti, 4.

– Alla mia domanda: “Come vi chiamate?”, Daniela rispose: Sorelle senza nome. Perché vi chiamate così?

«Dopo il Concilio Vaticano II, abbiamo avuto il coraggio di lasciare la Congregazione in cui non ci riconoscevamo più e abbiamo pensato che l’anonimato era la strada da intraprendere, senza nome ufficiale, come “Comunità verso il futuro”. Volevamo inserirci nella vita comune degli uomini che si riconoscono con il proprio nome, senza timbri o etichette. Le fonti che ci ispiravano erano gli Atti degli Apostoli, la Lettera a Diogneto e la vita dei primi cristiani. Forse, senza pensare, ci siamo inserite nella moltitudine dei senza nome di cui parla S. Giovanni nell’Apocalisse, coloro che attendono un nome nuovo che nessuno conosce. O, come nei versi di un partigiano italiano: “Gli uomini liberi non hanno patria poiché la loro patria è la vita. Non hanno nome poiché si conoscono solo come fratelli”».

– Dove è cominciata la vostra storia di fede? Com’è nata la vostra comunità?

«Negli anni ‘50 la nostra Congregazione è approdata in Brasile. Tra le missionarie c’erano Maria Elena e Linda. Attorno a loro si sono formati gruppi di riflessione che s’incontravano per pregare e riflettere sulla realtà che cambia e per capire che risposta dare alle nuove sfide. Anche le scuole da loro gestite (c’era una scuola in città e una in periferia) erano una “fucina” di pensieri e di proposte di futuro. Gran parte del nostro gruppo proviene da queste scuole e da questi gruppi».

– Che cosa è successo dopo?

«Negli anni 60, il Brasile viveva un periodo di grandi trasformazioni. Il pensiero di Teilhard de Chardin, Emmanuel Mounier, la teologia delle realtà terrestri, la rivoluzione pedagogica di Paulo Freire e in seguito la Teologia della liberazione, tutto portava a un risveglio della coscienza. Anche le masse popolari riscoprivano i loro diritti calpestati per secoli. Tutto richiedeva dei cambiamenti radicali. L’interrogarci sul nostro modo di vivere la fede, di rispondere al vangelo, è venuto spontaneo. Sentivamo l’esigenza di intraprendere un altro stile di presenza nel mondo. La congregazione non ha capito il momento storico che vivevamo e non ha accolto la profezia nascente. Dopo una richiesta di autonomia, rifiutata, la rottura è stata la strada da seguire».

– So che avete dovuto abbandonare il Brasile perché la vostra vita era minacciata. Per quale motivo?

«Alla rottura con la Congregazione seguì la chiusura del collegio frequentato dalle figlie delle classi più agiate della città, e ci trasferimmo in un quartiere periferico. Il Brasile era scosso da forti tensioni culminate con la feroce dittatura militare. Ogni tentativo di coscientizzazione ogni progetto di cambiamento, era considerato “sovversione”. Linda, responsabile delle scuole, fu esonerata dall’insegnamento all’Università e per lei le autorità militari prepararono un ordine di arresto immediato. Fu perciò consigliata di lasciare il Paese. Qui inizia la nostra diaspora».

– Voi stesse celebrate il culto, che chiamate “Agape”. Da dove scaturisce?

«L’impegno con gli altri, la fraternità e la preghiera sono stati per noi fondamentali. Alla preghiera personale e comunitaria diamo uno spazio importante. Nel percorso, l’amicizia con Vannucci, Balducci, Turoldo, Tholens e altri ci ha portato a nuove espressioni. “La celebrazione dell’agape, creata ogni settimana, è un momento di condivisione. Canti, testi del Vangelo e di altre fedi, di cantautori e poeti, di quotidiani, le nostre riflessioni comunitarie, traducono in preghiera ciò che abbiamo vissuto e la nostra fede in una presenza che ci accompagna e si fa visibile nella condivisione del pane quotidiano e della nostra vita” (M. Elena). E lo facciamo credendo alle parole di Gesù: “Dove due o tre sono riuniti in mio nome io, sarò in mezzo a loro”. L’agape viene celebrata tra noi e da noi, spesso con amici religiosi o laici, sempre persone in cammino. Vorremmo che sia frutto di una ricerca profonda e di un atteggiamento di ascolto».

– Nella vostra agape c’è sempre un simbolo, ogni volta diverso. Quale valore attribuite ai simboli ?

«A volte sentiamo che le parole sono insufficienti a esprimere ciò che vogliamo. Il simbolo è qualcosa che oltrepassa l’immediato e rivela una dimensione profonda che va oltre. Spesso succede che il simbolo “si presenta da sé”. Cerchiamo che non sia una forzatura ma significhi veramente ciò che abbiamo voluto dire».

– Voi siete una comunità cristiana, ma non appartenete a nessuna istituzione ecclesiastica. Appartenete però alla Chiesa di Dio, diffusa nel mondo. È così?

«Noi siamo una Comunità cristiana cattolica aperta ad altre ispirazioni di fede. Per noi il Vangelo è il punto cardine, è la Parola di Gesù, la guida dei nostri passi. Sentiamo di “appartenere alla Chiesa di Dio diffusa nel mondo”, al popolo di Dio sparso in ogni angolo della terra, dove Dio ha fatto dimora».

– Una caratteristica della vostra Comunità è che non accettate nuovi membri, quindi, quando voi non ci sarete più, la vostra Comunità scomparirà. Per quale motivo?

«Quando decidemmo di lasciare la Congregazione alcuni vescovi brasiliani (D. H. Camara, Fragoso, Casaldaliga e altri, appena tornati da Medellin, ci appoggiarono, suggerendoci di diventare una congregazione diocesana. Ringraziammo ma rifiutammo l’offerta. In un incontro con padre Arrupe in Italia, egli ci disse: “Se lo Spirito vi ispira di fare qualcosa di nuovo, dovete liberarvi da ‘tutte le gabbie’”. Noi ne abbiamo fatto tesoro. Il desiderio è quello di essere un fermento evangelico nel cuore del mondo, senza regole, senza maestri, senza nulla di acquisito per sempre. Per fedeltà alla vita che cambia, per fiducia nello Spirito che in ogni tempo crea e suscita nuove risposte agli appelli della realtà, decidemmo di non avere continuità. La nostra esperienza finirà con noi. L’immagine della “scia” ci accompagna. Dopo il suo passaggio le acque si rimescolano. Speriamo che il nostro sia stato “un piccolo agitarsi delle acque, ma una rotta tenace in armonia col grande sommovimento dell’universo” (Linda)».