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La salute diseguale

Il quarto convegno nazionale organizzato dalla Diaconia valdese non poteva che essere condizionato dalla pandemia che tutto ha stravolto: a partire dalla fruizione, ovviamente virtuale, per proseguire con il tema scelto, “La salute diseguale”, un titolo che racchiude già un giudizio su quanto il Covid-19 stia colpendo maggiormente laddove condizioni sociali, economiche, sanitarie sono più deboli. Ma, come più volte ribadito, questa non è che la prosecuzione amplificata di una situazione esistente da anni, con una forbice sempre più ampia fra ricchi e poveri che si riverbera anche nell’accesso alle cure sanitarie. La vice-moderatora Erika Tomassone nel portare i saluti della Tavola valdese ha evidenziato proprio come «il diritto alla salute per tutte e tutti è la grande sfida di questo periodo. La pandemia ha accentuato le difficoltà per cui non dobbiamo chiuderci in egoismi ma allargare invece la platea dei beneficiari dei diritti per costruire davvero una società più equa».

Al pastore Sergio Manna è toccato fornire la cornice teologica ai lavori ragionando sui termini salute e salvezza, complementari eppure così spesso tenuti separati: «Non possiamo sempre guarire la persona, ma possiamo sempre prendercene cura. Gesù incontra spessissimo i malati, si lascia coinvolgere, se ne prende cura integralmente, non fa certo distinzioni fra anima e corpo né su chi curare e chi no, come ci insegna la parabola del Samaritano».

Marco Geddes da Filicaia, epidemiologo e vicepresidente del Consiglio superiore di Sanità ha inchiodato con la forza dei numeri il peso della diseguaglianza: «39 milioni di dosi di vaccino andati ai 49 paesi più ricchi, si tratta al momento di un catastrofico fallimento morale. Ma la mia salute dipende dalla salute degli altri. Non è vero che la pandemia colpisce tutti allo stesso modo, la mortalità è legata in maniera rilevante a situazioni precostituite e relazionate alle disparità di reddito; era così ai tempi della peste manzoniana, allora per un ricco morto di peste ne morivano mille di poveri, ed è così ancora oggi ».

Uno dei temi chiave è la prevenzione e Cristiano Gori, docente di Politica sociale all’università di Trento, ha ricordato che essa è «strettamente correlata alla situazione economica, così come l’accesso alla salute. Se le persone non sanno dove rivolgersi, se passano sei mesi per un esame e non posso permettermi la visita privata, ecco che si creano disparità». Gori insiste poi su un dato che la pandemia ha evidenziato: «laddove funzionano i servizi territoriali, di prossimità, la prevenzione, anche dal Covid, funziona meglio e limita i danni». Anni di chiusure di ospedali locali hanno portato a risultati opposti, e le valli alpine, ma non solo, lo sanno molto bene.

Nella seconda parte della mattinata, una tavola rotonda condotta da Loretta Malan (responsabile Servizi Inclusione) ha visto la testimonianza “sul campo” di organizzazioni come Medici senza frontiere, Medici per i diritti umani e della stessa Diaconia valdese.

Importante la contestualizzazione iniziale sulla salute psichica dei migranti, portata da Marco Mazzetti della Società italiana di Medicina delle Migrazioni, che ha sfatato alcuni miti spiegando il cosiddetto “effetto migrante sano”, e sottolineando da un lato il cambiamento degli ultimi anni, che ha reso più pericoloso (e quindi minaccioso per la salute) il percorso migratorio; dall’altro l’importanza fondamentale del “supporto sociale” della propria comunità nel paese d’arrivo, che le ricerche mostrano avere più peso di traumi anche gravi. In altre parole, sono le difficoltà patite durante il viaggio “irregolare” (fino ad alcuni anni fa, modalità poco frequente) e le condizioni di vita nel paese d’arrivo (magari con il proprio “progetto migratorio” che naufraga su un marciapiede) a minare la salute psico-fisica. 

E questo è doppiamente vero per le donne, come emerso nella relazione della sociologa Lia Lombardi della fondazione Ismu (Iniziative e Studi sulla Multietnicità) dell’Università di Milano: i risultati di alcune ricerche europee sottolineano i rischi cui sono sottoposte le donne migranti, erroneamente assimilate “ai” migranti trascurandone l’esposizione non solo alla violenza di genere, ma anche a quella “di prossimità”, tipica di situazioni di vicinanza forzata (centri accoglienza, barconi, prigioni …) e agita da chi detiene una posizione di potere (trafficante, poliziotto, …). E poi non va trascurata, ha sottolineato Lombardi, la “violenza secondaria” nei paesi d’arrivo, quando un operatore agisce con superficialità e formazione inadeguata, per esempio comunicando una diagnosi tragica come quella di sieropositività, per molte più spaventosa dello stupro stesso.

E qui entra in gioco la preparazione degli operatori (sanitari, sociali), la loro capacità innanzitutto di ascoltare, come ha ricordato Noemi Bertolotti, operatrice della Diaconia valdese: cogliere i bisogni e le paure della persona, in una non facile mediazione fra medici e pazienti e laboriosa costruzione di un rapporto di fiducia che magari viene vanificata da una visita frettolosa.

La capacità di leggere il territorio in cui ci si muove, saper vedere i bisogni impliciti dietro alla sofferenza delle persone e le loro richieste esplicite, conoscere i soggetti con cui lavorare per produrre cambiamento, sono punti comuni del lavoro della Diaconia emersi anche nell’intervento di Silvia Torresin, coordinatrice de Il passo social point, community center nato nell’ex tempio valdese nel quartiere più delicato di Torino come luogo di ascolto e di aggregazione per il quartiere, nell’ottica della costruzione di un legame sociale in un contesto spesso lacerato e che, con la pandemia, si è esacerbato. 

Il convegno ha fatto riflettere, ha concluso Daniele Massa (Csd), sul fatto che il diritto alla salute, causa e conseguenza di impoverimento, si lega (come accennato dai relatori) al tema dell’istruzione e che non si possono considerare queste dimensioni come compartimenti stagni ma, come diceva il pastore Manna, ragionare in modo olistico, considerando anche che “diritto alla salute” non è semplicemente accesso alle cure, ma prevenzione, condizioni di vita sane, benessere complessivo: non è una merce né tantomeno un optional.