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Odio e pericoli online / 1. Essere etici, essere protestanti

Dai lockdown mondiali, fino all’assalto a Capitol Hill, sembra che il Ventennio (ancora indefinibile) dal quale ci siamo da poco congedati voglia dirci qualcosa.

L’analfabetismo funzionale (cioè l’incapacità sempre più diffusa di comprendere ciò che si legge e ciò che accade) colpisce ampie categorie di persone, a prescindere dalle buone intenzioni. I segnali “deboli” del Ventennio rischiano di passare quasi inosservati o di essere minimizzati.

È forse giunto il momento di consultare gli esperti. Di avvicinarsi con umiltà, e senza pigrizia, alla complessità del mondo che ci circonda. Un mondo sempre più interconnesso, fatto di manipolazioni e di intrecci, visibili e invisibili. Intrecci che legano, e stringono in maglie sempre più fitte e impenetrabili, la finanza, la finanza ombra, le tecnologie, la comunicazione, la produzione e i consumi (di prodotti, del suolo, delle risorse e del benessere).

Abbiamo interpellato Stefano Frache sul concetto di hacking e abbiamo scoperto che ne esistono diverse forme, fra cui quelle “etiche” e quelle “non etiche”.

Nei mesi della pandemia si sono moltiplicate le esperienze digitali: formazione a distanza, webinar, dibattiti, presentazioni, culti via zoom e così via. Con l’aumento di queste interazioni, sono aumentate esponenzialmente anche le attività di disturbatori, trolls, odiatori seriali. Per fare due esempi, l’attacco antisemita durante la presentazione del libro di Lia Tagliacozzo, e quello omofobo nel corso del dibattito promosso dal Centro interconfessionale per la pace (CIPAX) su “Omofobia, transfobia e chiese”. Ci sono state molte altre segnalazioni simili. Tutte hanno in comune la rapidità di appropriazione della “regia”, la reiterazione, l’anonimato (telecamere spente o volti coperti), la violenza verbale, le minacce e, finora, l’impunità.

L’avvento del digitale “obbligatorio”, arrivato dentro le case di milioni di persone, ci ha colto impreparati, dando l’opportunità agli smanettoni più rapidi e meno scrupolosi di fornire servizi gratuiti e, spesso, invasivi della privacy.

«Bisogna cercare di capire come vengono fatte le cose – spiega Frache –. È come per i virus, che possono determinare un danno, ma anche essere un elemento di evoluzione della vita. Per i non addetti ai lavori è difficile distinguere cosa è buono da cosa non lo è. Bisogna andare oltre le analisi superficiali».

Il fatto è che questo tipo di attacchi «Appaiono misteriosi, ma evidentemente si possono fare» avverte l’ingegnere. E non è neanche così difficile. Per i nativi digitali è potenzialmente un gioco da ragazzi.

«Gli attacchi colpiscono sovente l’elemento più fragile del sistema, cioè l’essere umano. Pensiamo agli enormi database di password rubate. Centinaia di gigabyte che ci fanno capire come le persone costruiscono le loro password, e ci dicono moltissimo di loro. Chi ignora questi aspetti è estremamente più vulnerabile. Il fenomeno è dilagante. Anche un sistema molto sofisticato può essere ribaltato o messo in ginocchio da una manciata di persone. È estremamente più semplice di quanto ci si possa aspettare. E lo possono fare anche persone non particolarmente preparate».

Stefano Frache affronta anche la questione dei costi e della gestione informatica. Parliamo di reato di penetrazione dei sistemi informatici (di intelligence, di comunicazione militare, di codici), ma soprattutto di consapevolezza dei rischi.

«La pigrizia e la fatica di fare le cose sono due cattive consigliere. Bisogna affidare le proprie password a meccanismi di generazione robusti. La diffusione dell’autenticazione a due fattori non è un caso, certe password sono una barzelletta. Nella nostra ingenuità umana a volte siamo pervasi dal senso del buono, dall’idea di fare una cosa giusta, e finiamo per usare delle procedure basate sulla fiducia del prossimo. Quindi, avviene una sottovalutazione della meschinità, e dei pericoli che possono nascondersi in operazioni che si fanno comunemente. Insomma, è come accettare caramelle dagli sconosciuti».

Ci sono anche implicazioni etiche profonde: «Pensiamo all’uso dei detersivi negli anni ’70 – continua Frache -. Si invitava la gente a utilizzarne in abbondanza, irresponsabilmente, trasformando poi il mare e gli eco-sistemi in un’immondizia. Vale lo stesso per le pratiche tecnologiche. Siamo pervasi da un sistema che rischia di inquinare la nostra vita. Ma è inutile lamentarsi del mondo, se poi assecondi le sue pieghe. E questa cosa riguarda anche le chiese».

Un ammonimento. Non basta dichiararsi “etici”, bisogna anche agire di conseguenza. Pensiamo alle scelte di verifica dell’eticità delle banche su cui insistono i conti correnti delle chiese, ad esempio.

«Zoom è stato emblematico. Fa parte di quei sistemi che arrivano primi sul mercato, perché non tutelano nessuno. Lavorano con standard minimi di sicurezza, a volte inaffidabili, con piattaforme vulnerabili, mentre altri sono stati più lenti, anche solo perché si sono fatti più scrupoli. Anche le chiese dovrebbero capire che non basta avere buoni principi. Ci si sente buoni troppo presto, senza aver fatto abbastanza. Il gioco si sta facendo sempre più sofisticato, ma anche complicato, e la gente rimane indietro. Con maggiori competenze e informazioni, le persone avrebbero il potere di rovesciare il tavolo. Si tratta di fare una scelta onesta, forse severa, ma insomma, protestante».


Stefano Frache. Ingegnere elettronico presso il Politecnico di Torino, è tra i fondatori di una società di sviluppo software e apparecchiature elettroniche. Ha trascorso un periodo di dottorato in Elettronica e Telecomunicazioni fra Torino e Losanna. Di origini valdesi, ha collaborato, fra l’altro, con la Commissione Globalizzazione e ambiente (GLAM) della Federazione delle chiese evangeliche in italiane (FCEI) e con la Chiesa valdese – Unione delle chiese metodiste e valdesi.

Da Nev.it