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In Bangladesh minoranze e classi povere nel mirino

Il 18 gennaio, nel campo per rifugiati rohingya di Cox’s Bazar in Bangladesh (un distretto nel sud-est del paese) quattro scuole dell’Unicef sono state ridotte in cenere.

Ufficialmente, per le autorità locali, si tratterebbe di un incidente casuale (ma è plausibile che avvengano contemporaneamente ben quattro corti-circuito?). Anche per il commissario bengalese responsabile per i rifugiati si sarebbe trattato di un «incendio scoppiato casualmente».

Invece per le organizzazioni Onu per l’infanzia siamo di fronte a un vero e proprio crimine, una serie di incendi appiccati ad arte.

L’Unicef ha parlato esplicitamente di un «incendio criminale, un attacco contro quattro centri di apprendistato nei campi per rifugiati». Precisando che in questo modo viene colpita «l’educazione di oltre 300 bambini rifugiati, già sfavoriti».

Fortunatamente in quel momento le quattro scuole (strutture “non permanenti”, realizzate con materiale risultato infiammabile) erano vuote.

Qualche giorno prima un altro devastante incendio aveva colpito il campo di Nayapara (sempre nel sud-est del paese) distruggendo almeno cinquecento baracche, per lo più in bambù e lasciando all’addiaccio circa duemila rifugiati della minoranza musulmana.  In questo caso tuttavia anche le agenzie delle Nazioni Unite non escludevano che l’incendio si fosse generato casualmente. Non per un attentato, ma per lo scoppio di una bombola di gas.

Dal 2017 l’Unicef gestisce in Bangladesh 2500 centri di apprendistato nei 34 campi per rifugiati che accolgono circa 750mila rohingya (provenienti dalla Birmania per sfuggire alla pulizia etnica operata dalle milizie del Paese) tra cui 240mila bambini. Al momento i centri sono ancora chiusi per la pandemia, ma con la speranza di poterli riaprire entro un mese o due.

E la vita risulta piuttosto dura anche per altri diseredati bengalesi. Qualche giorno fa un tribunale di Dacca ha stabilito che diverse centinaia di baracche costruite ai bordi della strada che collega Mirpur-11 a Kalshi andavano demolite e gli abitanti – diverse migliaia – espulsi con la forza (leggi deportati). Ma l’ingiunzione ha provocato le proteste di queste donne e questi uomini che hanno accolto con lanci di pietre, tegole e  mattoni le forze dell’ordine incaricate dello sgombero. Medesimo trattamento lo avevano riservato per quei  funzionari municipali e membri del partito al potere che erano accorsi a sostenere l’operazione.

Proprio da parte dei membri del partito governativo sono venuti gli attacchi più duri contro i manifestanti, mentre la polizia sparava proiettili di plastica. Alla fine, almeno ufficialmente, si sono contati una cinquantina di feriti.