40946234-07b2-4505-9272-195c600548db

Un sogno panafricano

L’anno che si è appena chiuso in Africa è stato quello del sessantesimo anniversario delle indipendenze africane.

Il 1960 non è solo l’anno delle indipendenze, dell’accesso delle nazioni africane alla sovranità internazionale. Per l’Africa e gli africani è l’anno del «sole dell’indipendenza».

La fine dei secoli di ciò che il pensiero panafricano chiama «umiliazione», quando, come diceva Lumumba, «abbaimo conosciuto i dileggi, gli insulti, i colpi subiti mattina e pomeriggio perche’ eravamo negri».

L’indipendenza è soprattutto questo. L’uscita dalla «lunga notte coloniale» durata secoli quando – prima con la schiavitù e dopo con la colonizzazione – gli africani hanno smesso di vivere da sé e per sé per vivere secondo gli altri e per gli altri.

A lungo preparata dalle lotte di liberazione più o meno violente, l’ora dell’Africa scocca nel 1960 quando, una dopo l’altra, le nazioni africane conquistarono l’indipendenza dalle potenze coloniali ed ebbero accesso alla soggettività internazionale.

Questo ingresso solenne nell’arena delle nazioni libere ha rappresentato una svola epocale nella storia del multilateralismo scaturito dalla Carta fondativa delle Nazioni Unite.

E’ dunque tempo di bilanci per le nazioni africane indipendenti, anche se la crisi dovuta all’emergenza Covid-19 ha impedito molte celebrazioni, ma soprattutto, una presa di coscienza collettiva sui cammini di libertà intrapresi con successo, falliti per colpa degli stessi africani, oppure, bloccati dalle logiche della guerra fredda e dal neocolonialismo che ha fatto rientrare dalla finestra le logiche del dominio e della predazione che le indipendenze formali avevano espulso dalla porta.

Per alcuni le indipendenze sono state un totale fallimento, un sogno trasformato in incubo, determinato dai fallimenti della costruzione dello stato-nazione; dal disastro di modelli economici fotocopiati da fuori, inadeguati a cancellare l’economia di  predazione delle risorse naturali attuati da secoli ed incapaci di assicurare la soddisfazione dei bisogni essenziali della popolazione; dall’instabilità politica e dalla violenza endemica che attraversa tutte le società africane a diversi livelli della vita sociale.

Per altri, le indipendenze sono solo il punto di partenza; un lungo processo per trasformare in realtà l’anelito di libertà e di autodeterminazione.

«Non siamo liberi – diceva Nelson Mandela – abbiamo solo conquistato la facoltà di essere liberi».

In mezzo sta lo spazio per le donne e gli uomini del continente di partorire cammini di emancipazione rispetto alle logiche condizionanti della globalizzazione; cammini di innovazione capaci di abbandonare il «mimestismo» costituzionale ed istituzionale per inventare forme inedite di partecipazione politica adeguate alla struttura sociologica ed antropologica delle società africane; cammini di speranza per inventare modi nuovi di produrre e riprodurre la ricchezza attingendo alla vivace creatività dell’economia vernacolare africana che ci insegna che è possibile immettere nell’economia valori che l’idolatria del profitto ha espulso con supponenza e violenza.

L’economia vernacolare nelle periferie abbandonate e nelle aree rurali parla di territori e comunità tutt’altro che rassegnate. Essa è la cattedra dei poveri che, nella loro disperazione, inventano forme nuove di economia (oikos nomos) con al centro i valori della reciprocità, dell’inclusione sociale e della comunione con l’ambiente.

Quest’ultima non è una visione utopistica che nasconde la povertà, i conflitti, la destabilizzante implosione degli Stati-nazione.

É una visione afro-realista che rifiuta di considerare le realtà del continente attraverso il prisma ridotto delle statistiche ufficiali.

É una visione che guarda il continente dai luoghi concreti del suo calvario quotidiano per la sopravvivenza (dentro un campo profugo, in un quartiere povero delle grandi megalopoli, nei villaggi assillati dai cambiamenti climatici); e dentro questi luoghi si scorge l’Africa della resistenza e dell’innovazione.

La pietra rigettata dai costruttori, dai pianificatori della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, dagli «sviluppatori di professione» della cooperazione bilaterale e multilaterale, questa pietra è diventata (è sempre stata in realtà) una pietra angolare.

Resistenza e innovazione delle afriche dimenticate che sono l’ossatura di un Continente, definito una «pentola che bolle» dal sociologo camerunese Jean Marc Ela.

La «pentola che bolle africana» non chiede «aiuti», non aspetta ricette miracolose preparate nelle stanze climatizzate di esperti filantropi.

Le Afriche dell’effervescenza creativa, chiedono, anzi esigono, di essere riconosciute, valorizzate e definitivamente considerate come soggetti attivi del proprio sviluppo.

I nuclei di resistenza e d’innovazione dentro le viscere del continente ci chiamano a riscoprire la valenza duale del concetto e della pratica della cooperazione (cum/operare in latino), che significa rompere la logica secondo la quale «la mano che dà sta sempre e comunque sopra quella che riceve».

Quei nuclei ci chiamano alla reciprocità, alla necessità di concepire la cooperazione come una complessa operazione di restituzione dell’Africa a se stessa, ai suoi figli che siano finalmente speranza per loro stessi.

La cooperazione da sola non basta, essendo sempre e comunque un fattore esterno.

Ciò che davvero serve al Continente africano è una sana e buona politica. Le Afriche si salveranno se sapranno rompere la doppia solitudine dei popoli del Continente.

Popoli soli dinanzi ai meccanismi della geopolitica e di fronte ai meccanismi dell’economia mondiale (la globalizzazione economica senza politica né etica); ma soprattutto popoli soli di fronte ai loro dirigenti politici che si sono accontentati di essere intermediari d’affari tra i territori africani e gli interessi internazionali. Le Afriche hanno bisogno di politici che siano lievito dentro la pasta, ossia, in grado in sapere leggere le aspirazioni profonde dei loro popoli e di tradurli in progetti politici innovativi, inclusivi, inculturati e fecondi.

La ricorrenza delle indipendenze aprono per il 2021 e per i decenni successivi  dei cantieri esaltanti per i popoli del continente africano. Il primo di questo cantiere è la realizzazione della zona di libero scambio africano (AfCFTA).

Un sogno panafricano che intende superare gli spazi angusti dei confini tracciati arbitrariamente dalla Conferenza di Berlino del 1885.