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Metodisti Uniti. Parola d’ordine “liberazione”

La pandemia di Covid-19 ha per il momento congelato la scissione ufficiale della Chiesa metodista unita (ne avevamo parlato qui), vista limpossibilità di tenere la Conferenza generale prevista per lo scorso maggio, in cui si sarebbe dovuta sancire formalmente la divisione tra lala più progressista e quella  “conservatrice”. La linea di questultima era prevalsa, si ricorderà, nella Conferenza generale straordinaria del febbraio 2019 (ne avevamo parlato qui) per dirimere la questione dell’accettazione o meno di ministri di culto apertamente Lgbt e della celebrazione di matrimoni fra persone dello stesso sesso.

La scelta di una linea “tradizionale”, votata a maggioranza, non aveva affatto risolto la questione, tanto che da subito si era parlato di scissione, ritenendo impossibile conciliare visioni così diverse, influenzate da fattori ovviamente non soltanto teologici ma anche culturali, tenendo presente che la denominazione è attiva negli Stati Uniti, in Europa, Africa e Asia.

Come spesso accade, la realtà è andata oltre, e l’aspetto normativo viene superato dai fatti. A metà novembre avevamo citato, per esempio, il caso della Chiesa metodista tedesca, decisa a trovare “insieme” una via. Anche negli Usa il dibattito sta proseguendo, con la nascita di un gruppo chiamato “The Liberation Project”, in cui la liberazione non è dalla Umc ma nella e per la Umc. Con il motto “Nessuno è libero finché non siamo tutti liberi”, il gruppo nazionale intende portare il discorso anche oltre la piena inclusione delle persone lgbt o “black” (sebbene l’impegno nel movimento Black lives matter sia indiscutibile), in un’azione per la giustizia a tutto tondo, ma restando all’interno della Umc, come hanno ribadito i suoi promotori, che si definiscono “liberationist”, tra i quali ci sono anche persone di colore, trans e queer.

Proponendo un percorso di rinnovamento anche attraverso larte e la musica,  The Liberation Project” si richiama anche alla “teologia della liberazione” diffusa a partire dagli anni ’60 nell’America Latina da teologi cattolici, enfatizzando l’idea di liberazione dei poveri e degli oppressi, e poi ripresa e riadattata anche in ambito metodista, per esempio dal teologo James Cone, tra i principali teorici della “black theology” (tra le sue prime opere, A black theology of Liberation).

Questo progetto si differenzia, anche se entrambi sono sorti idealmente a partire dall’esito della Conferena generale del 2019, da un’altra iniziativa chiamata “Liberation Methodist Connexion” (Lmx) che riguarda invece la creazione di una nuova denominazione metodista, che riunisce (ex)membri della Umc e altri cristiani. Una denominazione “nata dal basso” che accoglie e (si legge nel sul sito della Lmx) «invita alla piena partecipazione tutti quanti vivono le identità ed espressioni date loro da Dio»: da quella sessuale a quella religiosa o nazionale, ma includendo anche fattori quali la disabilità, la detenzione in carcere, le malattie croniche o la sieropositività, l’uso di droghe, la condotta sessuale non monogama, l’uso di piercing o tatuaggi. E si legge ancora: «siamo in cammino verso un nuovo modo di essere seguaci di Cristo, che confuta lo squilibrio dei poteri, i privilegi che hanno afflitto il metodismo: colonialismo, supremazia bianca, ingiustizie economiche, patriarcato, sessismo, clericalismo, abilismo, ageismo (discriminazione in base all’età, nda), transfobia ed eteronormatività». Difficile immaginare di poter conciliare questo “manifesto” con il il “Traditional Plan” adottato dalla (ex)chiesa madre quasi due anni fa.

 

Foto di repertorio via Istock