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Vivere senza Google è possibile

Google sa tutto di noi. Se facciamo una ricerca in rete sa che parola chiave abbiamo usato e se abbiamo cliccato o no sul banner pubblicitario di Adsense. Da quella semplice keyword sa se siamo preoccupati del Covid o se cerchiamo una clinica oncologica. Google sa che siti abbiamo visitato e se abbiamo usato il suo indirizzo Gmail per “loggarci” su un certo sito. Questo vale per i siti erotici come per l’accesso ai siti di giornalismo investigativo. Se la ricerca ci porta su Youtube è in grado di suggerirci i video da vedere favorendo i video simili a quelli che abbiamo già cliccato e presentarci dei contenuti razzisti anziché storie di solidarietà quotidiana.

Mentre navighiamo con il suo browser, Chrome, Google raccoglie le informazioni relative alla nostra permanenza su ciascun sito: sa da dove siamo partiti e dove siamo arrivati durante la nostra sessione di web surfing. Se però ce ne andiamo in giro, a piedi o in macchina, e usiamo Google Maps, saprà ancora più cose: da dove partiamo e dove andiamo, se quel percorso è ripetuto e frequente, quanto tempo ci mettiamo per arrivare e se ci siamo fermati a fare shopping presso un negozio identificato sulla mappa.

Queste informazioni che Google raccoglie incessantemente sono scritte con la penna, non con la matita, e sono destinate a rimanere archiviate per successive analisi di mercato. Google lo dichiara apertamente: tutte le informazioni che raccoglie su di noi servono a migliorare i suoi servizi e a produrre annunci e risultati personalizzati in base alle nostre ricerche, anche a favore dei suoi clienti.

In cambio di qualche comodità abbiamo così barattato la nostra privacy, quell’elemento della vita associata che ci permette di nasconderci all’occhio inquisitore degli altri garantendoci il diritto a essere imperfetti. È così che il diritto a non essere valutati e sorvegliati si ferma alle porte di Google. Perché Google sa di noi anche quello che non ci ricordiamo più: dove siamo stati, con chi, per quanto tempo, e quello che abbiamo fatto.

Google è una potenza il cui fatturato è superiore a quello di nazioni intere, Google è più avanti di molti governi nello sviluppo di computer quantistici e delle intelligenze artificiali che ci sostituiranno nel lavoro. Ma anche Google è fragile e imperfetto. Ce lo ha dimostrato quando ha smesso di funzionare all’ora di pranzo di lunedì 14 dicembre catapultandoci in uno scenario apocalittico oggi che la pandemia ci obbliga a fare tutto o quasi online: gli studenti hanno interrotto le lezioni a distanza su Google Classroom; i manager non hanno potuto scambiarsi documenti via Google Docs; singoli, aziende e organizzazioni non hanno potuto accedere ai materiali archiviati su Drive, eccetera, eccetera.

La spiegazione plausibile, ma non per forza veritiera, data dall’azienda, è quella di un’interruzione temporanea legata a un errore di autenticazione che ha causato un sovraccarico di memoria nei suoi server. Non è stata però una semplice interruzione. Il Googledown ci ha fatto capire quanto siamo dipendenti dai suoi tanti servizi visto che Youtube è la nostra televisione personale, Google Maps la nostra cartina geografica e Google Search la nostra memoria. Senza, ci sentiamo persi.

Eppure ci sono delle alternative. Mentre la Commissione Europea finalmente ragiona su come limitare il potere monopolistico di Google & Co. (Facebook, Amazon, Apple) possiamo pensarci noi a degooglizzare la nostra vita per tutelare meglio la nostra privacy e favorire la “biodiversità del web”. Invece di Google Search potremmo usare un motore di ricerca diverso: Duck Duck Go e Qwant funzionano bene e rispettano di più la nostra privacy. Come browser potremmo usare Mozilla Firefox; invece di Google Mail, potremmo usare Mozilla Thunderbird o Protonmail; al posto di Youtube potremmo caricare i nostri video su Vimeo e al posto di Google Maps potremmo orientarci con Open street map.

Dipende da noi. Degooglizzare la nostra vita non è facile né immediato, ma è possibile se lo vogliamo.