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Il sorriso di Lidia ci accompagnerà

Tra le motivazioni del Premio alla personalità laica dell’anno, assegnato nel 2019, proprio un anno prima della sua morte, dall’associazione Laici Trentini a Lidia Menapace si legge: «Riconoscimento alla persona di cultura, alla politica e alla sempre impegnata lottatrice pronta a scendere in piazza per caldeggiare e difendere i diritti di tutte e di tutti, alla vagabonda e instancabile viaggiatrice sempre in movimento per diffondere la cultura laica e progressista».

Più che vagabonda, che certamente è un’ottima definizione per questa straordinaria donna minuta che fino a 92 anni suonati ha preso un treno dietro l’altro munita di un minuscolo zainetto, lei si definiva «una peripatetica», facendo impallidire molti volti in occasioni ufficiali. 

Eretica e gentile, sorridente e tenace, amante della cucina e del bere bene, ha sempre parlato della via alcolica al socialismo, e al femminismo, come il miglior programma politico perchè la tristezza seriosa di molti degli ambienti della sinistra, e persino del femminismo, le stavano stretti. 

Raccontava con affetto e senso dell’ironia che al Manifesto, del quale fu tra le fondatrici, luogo pieno di fosforo (come scrisse il Washington post) ma forse non di grandi risate, quando lei, sempre sorridente, si faceva seria allora voleva dire che era il momento di mangiare. Lidia, infatti, era triste solo quando aveva un calo di zuccheri. 

Serve, e molto, in momenti come questi di spiazzamento per il distacco, pur annunciato, dove maggiormente si fatica ad elaborare il lutto perchè non ci sono occasioni di incontro e abbraccio che leniscono, almeno in parte, il dolore per la perdita, il rievocare le caratteristiche leggere della lunga vita ricca, dinamica e sempre in evoluzione di questa eccezionale testimone delle vicende più importanti del ‘900.

Nel docufilm Ci dichiariamo nipoti politici, lunga intervista realizzata da me con il regista Pietro Orsatti nelle due residenze di famiglia di Cles e Bolzano, Lidia racconta che quando si mandavano le notizie a Radio Londra, l’emittente della Resistenza, per far sapere come stava Bruna, che era il suo nome in codice, i messaggi erano “Bruna sta bene”. Io, dice nel film quasi divertita, stavo sempre bene, con le scarpe rotte, con i vestiti a brandelli…

Per spiegare come e perchè diventò antifascista, da giovanissima, raccontava di quando lei e la sua sorellina andarono a casa di due compagne di classe delle elementari, Ruth e Ester, assenti da qualche giorno da scuola, per portare i compiti arretrati. 

«Quando la domestica di casa ci disse che Ruth e Ester non sarebbero più tornate a scuola perchè erano ebree io pensai che quella donna fosse un po’ stordita. Che c’entrava l’essere ebree? Poi, a casa, i nostri genitori ci spiegarono cosa stava succedendo. E io pensai che era spaventoso che si punisse qualcuno non perchè aveva fatto qualcosa di riprovevole, ma perchè, semplicemente, era chi era. Ecco perchè sono diventata antifascista». 

Così, con la stessa semplicità, Lidia Menapace raccontò un’altra, totalmente antieroica e poco conosciuta storia della presenza delle donne nella Resistenza. «Essere partigiana è stata una scelta naturale, ma non necessariamente armata», diceva.«Non avrei mai potuto uccidere nessuno, ero così spaventata dalle armi che avevo il terrore di spararmi in un piede. Le donne hanno fatto la resistenza anche e soprattutto nascondendo i partigiani nelle case e nei fienili, rischiando la vita per questo atto di insubordinazione».

Con la stessa leggerezza Menapace ha espresso concetti complessi, come spiegare l’economia con occhi femministi; nella raccolta di articoli e riflessioni A furor di popolo, edito da Marea nel 2012, annota: La parola economia significa “regole di governo della casa”, o, se le due sillabe iniziali si intendono per ecumene, “regole della terra abitata (da case)” e “fare economia” è espressione che le donne conoscono bene, a cominciare da quelle che hanno a disposizione poche risorse, tanto che vale appunto: abituarsi a dosare gli ingredienti, contare e ricontare i soldi, rivoltare o rifare gli abiti, conservare e riciclare gli avanzi di cibo, mettere da parte tutti i pezzi di stoffa, stracci, fili, i gomitolini di lana, cesti, barattoli. Mia nonna una volta, accortasi che stava buttando nella spazzatura un asciugamani vecchio stinto liso e usato da sempre come straccio, si domandò: «Che stiano arrivando gli anni delle vacche grasse, se mi viene voglia di scartare qualcosa?».

Lidia negli ultimi vent’anni ha anticipato spesso i temi dei quali ci saremmo poi trovate a ragionare: della crisi, che diceva essere difficile ma anche una grande opportunità di trasformazione, perchè il crinale ci obbliga a decidere dove stare, della globalizzazione, a suo dire ultima propaggine di un capitalismo irriformabile, della relazione tra donne e uomini, vero indicatore di civiltà. 

Così scrive, sempre in A furor di popolo: «Riconoscere la barbarie significa capire la portata della crisi e che non si tratta di “uscire dalla crisi” cercando di ripristinare il capitalismo, cioè per via riformistica: ciò non è nemmeno più possibile. E allora si palesa impellente il compito di preparare almeno una cultura diffusa che ci spinga a fare lotte, costruire relazioni, ridisegnare la vita quotidiana, insomma a preparare una alternativa, un antagonismo, che non può essere nemmeno più fatto di grandi o grandissime lotte disarticolate, bensì di un tessuto socioculturale che si incomincia a tessere nelle relazioni, nelle occasioni che si storicizzano memorizzandole, costruendo perciò una teoria concreta, per le occasioni storiche da cui prende il via, e di prospettiva perché misura la propria gittata verso il futuro. Non so se riesco a dire la completezza complessità e alternatività alla quale ci stiamo attrezzando sul terreno teorico, ma spero almeno di riuscire ad esprimere ciò che più colpisce e cioè la barbarie di tutto il comparto della riproduzione assoggettato al tentativo di governarlo capitalisticamente, mentre ciò è impossibile. Qui il sistema capitalistico incorre oggettivamente nei suoi limiti insuperabili. Sono convinta che ciò avviene perché davvero per la prima volta è inapplicabile positivamente il “modo di produzione capitalistico”, il capolavoro del capitalismo, capace di convivere persino con un paese come la Cina, che si dice comunista e applica alla grande il capitalismo di stato, avendo mutato la proprietà dei mezzi di produzione, non il modo di produzione». 

Leggere e rileggere, ascoltare e riascoltare le sue parole e visioni, (al sito www.radiodelledonne.org c’è una pagina con link a video, audio e testi raccolti negli ultimi 15 anni di sua attività, in particolare agli incontri seminariali di Altradimora e con la rivista Marea) diventa da oggi, con la sua scomparsa, il modo per raccogliere questa grande eredità di pensiero, per affrontare con maggiore consapevolezza il presente e delineare il futuro di trasformazione radicale che vogliamo, con le sue parole, amorevoli e autorevoli, al nostro fianco.