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L’uccisione di Mohsen Fakhrizadeh in Iran, tra omicidio e attentato

Venerdì 27 novembre, Mohsen Fakhrizadeh, uno dei più importanti scienziati iraniani, è stato ucciso durante un attacco armato non lontano dalla capitale iraniana Teheran. In assenza di rivendicazioni dell’attacco, tutti gli occhi puntano su Israele, considerato il principale nemico dell’Iran nella regione e non nuovo all’uccisione di alcuni importanti scienziati impegnati nel programma nucleare iraniano. Secondo Israele, infatti, così come per l’amministrazione statunitense uscente guidata da Donald Trump, Teheran sta segretamente sviluppando armi nucleari violando l’accordo Jcpoa del 2015. Tuttavia, proprio gli Stati Uniti sono usciti per primi da quell’accordo e le ispezioni dell’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, non hanno mai dato esiti contrari ai principi generali dell’intesa, pur con alcune preoccupazioni che andranno tenute sotto controllo.

L’uccisione di Mohsen Fakhrizadeh ha una rilevanza maggiore rispetto a quelle di altri scienziati soprattutto per la sua importanza nel Paese, al netto della ricerca sul nucleare. Nicola Pedde, direttore dell’Institute for Global Studies, racconta che «Fakhrizadeh era una figura centrale nella conduzione di molti programmi scientifici della Repubblica Islamica dell’Iran, era un professore dell’università Imam Hossein, il centro di eccellenza universitario legato al Corpo delle guardie della rivoluzione, cioè ai Pasdaran, l’istituto in cui è stato gestito in buona parte lo sviluppo del programma atomico nazionale in passato. Fakhrizadeh era tuttavia molto attivo in diversi campi, per esempio era sua la gestione in questo momento di tutta la ricerca scientifica connessa alla pandemia da Covid-19 e non solo questo, quindi era una figura centrale per il coordinamento di molti dei programmi scientifici».

Era effettivamente impegnato in un programma per lo sviluppo di armi nucleari?

«Questo ce lo dicono gli israeliani, ma non abbiamo evidenza questa sua posizione. Dall’altra parte abbiamo l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, l’agenzia che rappresenta tutti i nostri Paesi, che ha detto fino a poco tempo fa che l’Iran ha rispettato i termini dell’accordo e che è altamente improbabile che il programma nel quale sarebbe stato coinvolto Fakhrizadeh sia continuato dopo quella data».

Quindi perché trasformare questo scienziato in un obiettivo?

«Perché ha un valore simbolico. Credo che questa operazione da parte di Israele abbia molto poco a che fare con il programma nucleare iraniano e invece molto a che fare con fattori di natura politica, quindi con lo sfruttare una finestra di opportunità per gli israeliani che altrimenti sarebbe fortemente ridotta o penalizzata all’indomani dell’insediamento della nuova amministrazione politica statunitense».

Il 2020 si era aperto con un’altra uccisione che fece molto rumore, quella avvenuta in Iraq del generale iraniano Qasem Soleimani, capo della Niru-ye Qods, l’unità delle Guardie della Rivoluzione responsabile per la diffusione dell’ideologia khomeinista fuori dalla Repubblica Islamica. All’epoca quell’omicidio fu immediatamente rivendicato dagli Stati Uniti. Cosa c’è di diverso questa volta?

«La principale differenza è che Soleimani venne eliminato dagli Stati Uniti, che hanno nel loro modus operandi quello di comunicare le operazioni che fanno, quindi hanno immediatamente dato informazione sull’operazione svolta rivendicandone la responsabilità. Gli israeliani, al contrario, hanno come tradizione quella di non comunicare più di tanto, quindi di lasciare sempre le proprie operazioni avvolte in un’aura di incertezza, e questo è un comportamento ricorrente. Sono poche le operazioni che sono effettivamente rivendicate e non solamente attribuite a loro».

Quindi perché tutti indicano Israele come responsabile con ragionevole certezza?

«È l’unico attore che ha una coincidenza di interessi e capacità per fare queste cose. La rosa dei possibili sospetti di un’operazione del genere si riduce drasticamente in casi come questo».

L’esercizio da fare è ovvio: cosa sarebbe successo a livello internazionale se Teheran avesse ucciso un importante scienziato israeliano?

«Lo sappiamo bene: si sarebbe utilizzata una narrativa completamente diversa, si userebbe senza colpo ferire il termine “terrorismo” e si farebbe riferimento all’aggressività e alla pericolosità dell’Iran. E invece abbiamo un lessico che caratterizza tutta la comunicazione: si insiste a chiamarlo “omicidio”, si arriva a una condanna sempre molto blanda. Questa è la prima grande differenza. In termini di risposta abbiamo da parte iraniana una fase narrativa molto forte sui media, sulla vendetta da compiere, ma allo stato attuale credo ci sarà ancora una fase di attesa, perché la vera discriminante nella determinazione di una risposta da parte iraniana sarà la posizione della nuova amministrazione statunitense. Ci dobbiamo aspettare una dichiarazione di Biden su questo omicidio entro pochi giorno o invece preferirà tacere? Questo potrebbe fare molto la differenza anche nella risposta da parte dell’Iran».

Possiamo pensare che questa azione si possa considerare una “polpetta avvelenata” lasciata sulla strada del nuovo presidente degli Stati Uniti?

«Assolutamente sì. È difficile dire se la stia lasciando Trump o se la stia lasciando il primo ministro israeliano Netanyahu con l’avallo di Trump. Credo però che sia una finestra di opportunità che il premier israeliano ha voluto sfruttare prima dell’insediamento della nuova amministrazione americana. È una finestra di opportunità molto rischiosa in termini politici non solo sul piano regionale, quindi sul piano dell’innesco di una crisi con l’Iran, ma anche con i suoi stessi alleati regionali e interni. Questa è la parte contraddittoria e da un certo punto di vista spregiudicata della politica di Netanyahu. In realtà, tutti gli ultimi episodi che lo riguardano sono caratterizzati dalla spregiudicatezza, al punto che gli stessi Emirati Arabi Uniti hanno dovuto prendere immediatamente le parti dell’Iran ed esprimere le loro condoglianze al Paese per quanto era accaduto, perché loro, primi firmatari del patto di Abramo, si ritrovano oggi a essere esposti in prima linea di fronte al rischio di ritorsioni. Il fatto che queste operazioni siano condotte senza neanche sentire gli alleati è indice di quanto la spregiudicatezza di decisioni di questo tipo possa portare un rischio regionale esteso anche nella sfera dei Paesi più vicini. C’è poi un altro episodio che vorrei ricordare, quello della recente missione in Arabia Saudita di Netanyahu, che doveva essere una missione segreta ma che invece è stata sostanzialmente molto facile da seguire, al punto che il suo aereo è stato tracciato sui siti internet. Lì c’è stato un rilascio di informazioni autorizzato dal premier che ha messo in imbarazzo anche il suo principale alleato di governo, Benny Gantz, che era stato tenuto all’oscuro della stessa missione. Quindi un’accelerazione sul piano dell’attivismo regionale che rischia di avere fortissime conseguenze anche sul piano della politica regionale con gli alleati o comunque con i Paesi con cui si intrattengono rapporti discreti, e con gli alleati politici all’interno del Paese».