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L’assordante silenzio italiano sul caso Eni-Congo

Che cosa tiene insieme Italia e Repubblica del Congo, due Paesi separati da 5.000 chilometri e da una storia così differente?

La risposta, come sempre, non è così semplice, ma c’è un filo rosso che da decenni vede la più importante impresa pubblica italiana, Eni, molto attiva nell’ex colonia francese. Tuttavia, Eni non è soltanto una tra le più importanti società energetiche al mondo, ma è anche una colonna portante della politica estera italiana, come testimoniano le relazioni con l’Egitto e in generale le politiche nel Mediterraneo.

Questo ruolo, sospeso tra l’ufficiale importanza economica e l’ufficioso ruolo diplomatico, è spesso messo sotto la lente della giustizia. Oggi diversi vertici di Eni sono indagati per corruzione internazionale proprio a causa di un’operazione avvenuta nella Repubblica del Congo, mentre l’amministratore delegato Claudio Descalzi e la moglie Marie Magdalena Ingoba sono sotto indagine per omessa comunicazione di conflitto di interessi. Per la Procura, infatti, società collegate a Ingoba avrebbero beneficiato da contratti firmati con Eni per servizi forniti in Congo.

Tutto parte però da più lontano, come racconta Antonio Tricarico, responsabile del programma Nuova Finanza Pubblica dell’associazione Re:Common e curatore del rapporto “Il Caso Congo – Gli affari dell’Eni nella Repubblica del Congo e i silenzi del governo italiano”, presentato venerdì 20 novembre. «Parliamo di un paese molto particolare – spiega Tricarico – che da decenni è sotto la stretta della famiglia di Sassou Nguesso. È un Paese relativamente piccolo per estensione rispetto ai Paesi confinanti, ma ricco di risorse energetiche e l’Eni insieme alla Total hanno sempre fatto da apripista. Lo stesso attuale amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, ha iniziato la sua carriera proprio in Congo, peraltro anche è sposato con una donna congolese, quindi da sempre l’Italia ha avuto un ruolo centrale in questo paese nello sfruttamento delle risorse. Come spesso succede in Africa, potremmo dire che quello sfruttamento di risorse può diventare anche una maledizione per la popolazione locale, visto che parliamo di un paese significativamente povero e soprattutto dove siamo ancora lontani da standard democratici».

Come detto, Eni non è soltanto un importante attore del mercato estrattivo, ma è anche uno strumento importantissimo della politica estera italiana. Come si inserisce strategicamente la Repubblica del Congo nella nostra politica estera?

«Nel contesto della colonizzazione e decolonizzazione, è chiaro che storicamente è la presenza francese a essere più rilevante, e da qui si capisce il ruolo della Total, la principale società petrolifera francese. Va però sottolineato che Eni ha fatto da apripista agli interessi italiani nel Paese da decenni, e oggi ha quasi assunto un ruolo primario nei confronti della stessa Total. Soprattutto, negli ultimi dieci anni c’è stata una un’attenzione sempre più forte all’avere una presenza in questo quadrante dell’Africa che rappresenta un intreccio importante per la presenza di risorse naturali e dal punto di vista della sicurezza. Ricorderei la fortissima attenzione anche da parte degli Stati Uniti rispetto all’Africa Occidentale e la conflittualità della visione tradizionale francese di controllo dell’area. In questo, in ultima istanza è l’Eni che fa la politica estera italiana e probabilmente gli altri apparati dello Stato vanno a ridosso, perché Eni ha una presenza stabile e soprattutto la capacità di raggiungere le élite locali e di negoziare direttamente con i vertici del Paese, che è quello che consente di accreditarsi in questi ambiti comunque molto conflittuali».

Nel vostro rapporto si parla di due concessioni particolari che vengono messe sotto la lente. Da dove parte la storia e soprattutto qual è il problema?

«Parliamo di accadimenti che sono avvenuti tra il 2012 e il 2014. Come spesso è avvenuto negli ultimi anni in diversi Paesi africani, i governi locali hanno introdotto legislazioni o politiche che miravano a favorire uno sviluppo del settore petrolifero locale. In linea di principio è anche giusto, perché solo con la presenza di proprie industrie si può avere un ritorno maggiore rispetto allo sfruttamento del petrolio e del gas. Ora, queste cosiddette “politiche di indigenizzazione” prevedono che quando si rinnovano le licenze esistenti o si danno nuove licenze, si cerchi di imporre una quota minima, un 8 o un 10 per cento dell’assegnazione, che vada a delle imprese locali. Quello che si è verificato in congo purtroppo è quello che si è verificato in vari altri contesti, cioè un connubio fra gli interessi delle élite locali, figure alquanto discusse ma molto influenti, con faccendieri internazionali, e questo di fatto ha portato Eni a cedere una parte molto limitata delle proprie licenze da rinnovare a una società locale, la AOGC, che in realtà sostanzialmente faceva capo a Denis Gokana, che era stato il capo dell’azienda petrolifera pubblica e poi era addirittura diventato il consigliere sull’energia del presidente Sassou Nguesso, quindi decisamente collegato a numerosi pubblici ufficiali congolesi. L’ipotesi accusatoria della procura di Milano, la cui indagine nasce anche da una nostra segnalazione, è che questa cessione di quote sia avvenuta con la piena consapevolezza che il beneficio che andava a vantaggio di pubblici ufficiali locali avrebbe avuto per Eni un ritorno in futuro rispetto a nuovi negoziati, nuove licenze e nuove assegnazioni».

Di fronte a un’accusa così pesante per un’azienda che è così determinante per la nostra politica estera, qual è stata la reazione della politica italiana?

«Un assordante silenzio che va avanti oramai da anni numerosi anni. Non è la prima volta che l’azienda e addirittura l’attuale amministratore delegato finiscono sotto indagine: ricordiamo che Claudio Descalzi è anche imputato a processo per corruzione internazionale nel caso OPL-245 in Nigeria, la presunta maxi tangente di un miliardo e cento milioni di dollari che Eni e Shell avrebbero pagato per l’acquisizione di questo importante blocco petrolifero offshore nel lontano 2011. Va detto però che è stata una successione non solo di scandali ma anche di atti importanti, ricorderei che la procura di Milano addirittura ha chiesto un’interdizione per Eni e in secondo luogo un commissariamento la società riguardo all’operatività su queste due licenze in Congo e il giudice per le indagini preliminari deciderà nelle prossime settimane a riguardo. Parliamo di prove che sono significative, ovviamente sarà la giustizia a fare il suo corso, i giudici a decidere in ultima istanza condanne e assoluzioni, però è indubbio che ci sia un’ombra pesante sull’attuale management di Eni, che sorprendentemente è stato confermato senza nessuna sottolineatura da parte del governo attuale nel maggio 2020. In un certo senso il governo se ne lava al momento interamente le mani, o meglio, continua andare a traino di una società che probabilmente conta più dello stesso governo italiano nella politica di sicurezza, nella politica estera, nelle relazioni internazionali per quanto riguarda l’energia, o sulle questioni climatiche. Ci sarebbe da porsi alcune domande come italiani sul perché il governo italiano, principale azionista di Eni al 30%, non dica mai nulla e non intervenga».