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Fototessere 10: il tempo di Geremia

Prosegue la serie di incontri dialogati che Paolo Ricca realizza per Riforma e che ha visto finora i ritratti di Maria Paola RimoldiAnnapaola CarbonattoMatteo FerrariFulvio FerrarioGabriella CaramoreVito TamboneAndrea DemartiniMarco Cassuto Morselli e Shangli Xu: uomini e donne che hanno dei ruoli conosciuti all’interno delle chiese evangeliche in Italia o nell’ambito ecumenico, ma anche persone che, pur non avendo incarichi conosciuti ai più, portano con sé un’esperienza di fede significativa per tutti e tutte noi. Oggi è il turno del pastore e teologo valdese Giorgio Tourn.

 

È per me un piacere e un onore presentare il pastore Giorgio Tourn, che il 1° luglio scorso ha celebrato il suo 90° compleanno con la moglie Gabriella e le figlie Sara e Miriam. È nato infatti il 1° luglio 1930 a Rorà, villaggio alpino dell’alta val Luserna da una famiglia di origine contadina. Dopo la maturità classica, gli studi di Teologia a Roma (Facoltà valdese) e Basilea (Università). Consacrato nella Chiesa valdese nel 1955, ha esercitato il ministero pastorale nelle chiese di Massello, Pinerolo e Torre Pellice e, dopo Massello, nel Centro ecumenico di Agape (Prali). Dal 1980 all’1989 è stato presidente della Società di Studi valdesi e, in seguito, direttore del neonato Centro culturale valdese, di cui ha promosso la creazione. È entrato in emeritazione nel 2000. Autore di molti libri, due sono di particolare valore: una Storia dei Valdesi, tradotto in cinque lingue tedesco, inglese, francese spagnolo, olandese), e la cura della versione italiana della Istituzione della Religione cristiana, di Giovanni Calvino, con una sua importante Introduzione, che è anche un ottimo saggio di teologia calviniana. Vive a Rorà.

Lei è stato pastore tutta la vita. Consacrato nel 1955, in emeritazione nel 2000, in servizio per 45 anni. Lei ha sempre esercitato il ministero pastorale nelle valli valdesi. È stata una sua scelta oppure una pura coincidenza?

«Fu il convergere di scelte della Chiesa e di circostanze. Fui inviato a Massello perché ero l’unico giovane pastore che avesse familiarità con il francese ancora in uso. La vicinanza ad Agape determinò il mio impegno nel Centro, la collaborazione con il pastore Achille Deodato, impegnato nella Foresteria a Torre Pellice, dettò il trasferimento a Pinerolo. Alle circostanze devo il lavoro nella chiesa di Torre e l’impegno nel Centro culturale valdese. Entrambe le nomine della Tavola valdese, su mio suggerimento, per risolvere due crisi: la frattura creatasi negli anni ‘70 fra “conservatori” e “contestatori”, e la mancanza di coordinamento delle nostre strutture culturali alle Valli».

Lei è stato un pastore-teologo o un teologo-pastore. I suoi interventi in Sinodo valdese spesso lasciavano un segno per il loro forte contenuto teologico. Molti, nella Chiesa, speravano di vederla insegnare in Facoltà di Teologia; ma lei non ha mai voluto cogliere le occasioni. Perché?

«Per due motivi. Pur avendo forte interesse per la teologia non avevo la formazione accademica necessaria al compito. Ma ero anche convinto che la Facoltà non fosse più lo strumento idoneo alla formazione di predicatori dopo la crisi della guerra. Studiando Bonhoeffer e il suo seminario a Finkenwalde ne traevo le conseguenze. In quel senso la commissione, che presiedetti per la riforma degli studi negli anni ‘70, pose il problema al Sinodo, proponendo timide riforme ma l’interesse fu di breve durata e tutto tornò come prima».

Il capitolo 1° del libro IV dell’Istituzione di Calvino è intitolato La vera Chiesa, con la quale dobbiamo mantenere l’unità, perché è madre di tutti i fedeli. Lei condivide questa tesi della Chiesa madre?

«Quella che Calvino cercò di realizzare a Ginevra è una comunità evangelica, non istituzione di potere o setta, ma la famiglia di Dio. Egli ne è padre e lei è struttura disciplinata per l’educazione dei credenti. Non come le madri italiche, autoritarie e possessive, ma come quelle dell’Israele biblico, donne credenti, autorevoli perché consapevoli del loro ruolo. Questa è la chiesa: comunità responsabile che educa i suoi membri. In questa prospettiva, alla domanda “Lei si trova bene nella Chiesa valdese? Se sì, perché?”, non posso che rispondere: a chi debbo la fede se non a questa famiglia ecclesiastica? e dove potrei viverla se non in essa con i fratelli e le sorelle credenti?».

– Lei ha scritto parecchi libri, ma due spiccano per importanza: I Valdesi, la singolare vicenda di un popolo chiesa, e l’edizione italiana dell’Istituzione della Religione Cristiana di Calvino. Perché la storia della Chiesa valdese è detta “singolare” e perché i Valdesi sono un popolo-chiesa? Lo sono ancora?

«“Singolare” se posta a confronto con altre realtà evangeliche: legata idealmente al cristianesimo medievale, calvinista sui generis, radicata in un habitat ma non nazionalista, critica della cristianità senza essere settaria. Comunità di credenti consapevole, come l’Israele biblico, che la fede si vive non solo nel cuore e nel Regno ma anzitutto nella storia. Reinventare oggi questa sua specificità è quanto Dio le chiede».

– In un articolo recente lei ha scritto che la Chiesa valdese del 1945, quella in cui ha iniziato a fare il pastore, “non esiste più”. Ci può illustrare questa affermazione? In che cosa consiste la differenza con la Chiesa valdese di oggi?

«La Chiesa valdese del dopoguerra era una realtà organica, con forte coscienza identitaria, caratterizzata da un nucleo alle Valli dotato di istituti, strutture culturali, una rete significativa di chiese cittadine e di diaspora. Questa realtà, in crisi per le trasformazioni sociali negli anni ‘70-’90 è oggi una diaspora che deve trovare una sua identità, un evangelismo plurale in un paese che si secolarizza».

– Che cosa pensa del Movimento ecumenico? La ricerca della cosiddetta “unità visibile” dei cristiani e delle Chiese è, secondo lei, un progetto sensato o un’impresa disperata?

«L’unità in Cristo esiste, il problema è esplicitarla. A questa scelta storica lo Spirito chiamava le chiese a inizio secolo; come hanno risposto? Quella di Roma con sdegnata sufficienza, quelle ortodosse con l’impaccio dello statalismo marxista, le evangeliche in modi diversificati. I temporali dello Spirito, diceva Lutero, vanno accolti, quando giungono; quello del XX secolo è forse passato, a noi il compito di analizzare criticamente la nostra condizione attuale».

– Ha mai assistito a un papato come quello di Francesco così contestato dai suoi e apprezzato fuori della Chiesa cattolica? Che significano sia la contestazione che l’apprezzamento?

«Entrambi gli atteggiamenti sono irrilevanti per quel che riguarda una valutazione della situazione; anche Roma come tutta la cristianità si trova a fronteggiare la crisi; ha rifiutato sdegnata l’interrogativo ecumenico; fatto qualche lifting con il Vaticano II; eluso gli interrogativi che le venivano dalla crisi e dalla riflessione teologica di papa Benedetto e si è affidata come ultima ratio a un figlio di Sant’Ignazio, primo caso nella storia. Le recenti vicende dei palazzi vaticani dimostrano che siamo assai lontani dalla riflessione necessaria».

– Come predicherebbe lei l’Evangelo durante la pandemia, e dopo?

«Nel mio isolamento assoluto non saprei rispondere, possono farlo i miei colleghi che sanno usare strumenti moderni. A livello traumatico i mesi di pandemia mi ricordano gli anni ‘39-’45 (che ho vissuto): dopo è stato e sarà un altro mondo. Leggo Geremia e penso che come allora finiva, per Israele, il tempo della fede istituzionale e iniziava quello della diaspora, anche per la chiesa sta iniziando un nuovo percorso: quello della post cristianità».

 

Foto di Paolo Ciaberta, sinodo valdese 2015, Giorgio Tourn e Paolo Ricca