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Ancora passi avanti verso un mondo senza mine

Missione compiuta per il Cile, che diventa il trentesimo Paese ad aver completato la bonifica dalle mine antipersona, disposte soprattutto lungo la frontiera con Perù. Con questa ottima notizia si è aperta lunedì 16 novembre la diciottesima Conferenza degli Stati Parte della Convenzione internazionale per la proibizione dell’uso, stoccaggio, produzione, vendita di mine antipersona e relativa distruzione. Sul tavolo, anche nell’edizione 2020, che si svolge in remoto a causa della pandemia in corso, l’attenzione è rivolta a due aspetti in particolare.

«Prima di tutto – racconta Giuseppe Schiavello, direttore della Campagna Italiana contro le mine onlus – bisogna far rispettare agli Stati la scadenza per liberare i propri territori dalle mine, con l’obiettivo di avere entro il 2025 un mondo libero dalle mine. Spesso i Paesi chiedono una proroga che poi gli altri devono accettare. La campagna internazionale fa pressioni affinché gli Stati non si sentano autorizzati a richiedere con facilità, con leggerezza e con superficialità di spostare queste scadenze». In seconda battuta, si guarda con preoccupazione al nuovo aumento di vittime da mine antipersona e da residuati bellici esplosivi.

A raccontarlo è il Landmine Monitor 2020, presentato giovedì 12 novembre proprio in vista dell’apertura della Conferenza. Si tratta della ventiduesima edizione, nella quale si sottolinea che il percorso verso l’abolizione delle mine antipersona, la distruzione di arsenali e la bonifica delle aree contaminate stia continuando nonostante le difficoltà del 2020, segnato in modo totalizzante dal Covid-19. A oggi sono 164 i Paesi che hanno aderito alla Convenzione, mentre i 33 Paesi delle Nazioni Unite che ancora non ne fanno parte ne rispettano i principi, per convinzione o per cause di forza maggiore.

L’ampia distruzione delle scorte di questi ordigni indiscriminati continua ad essere uno dei più grandi successi del Trattato di messa al Bando delle Mine. Ad oggi gli Stati che ne fanno parte hanno distrutto oltre 55 milioni di mine antipersona presenti negli arsenali, comprese oltre 269.000 mine distrutte nel 2019.

Eppure, il 2019 rappresenta il quinto anno consecutivo con un elevato numero di vittime da mina e da residuati bellici esplosivi (ERW), dovuti per lo più ai conflitti armati intensi e all’uso su larga scala di mine improvvisate da parte dei cosiddetti “attori non statali”. Secondo il Landmine Monitor 2020 sono stati registrati circa 5.,554 incidenti da mine/ERW, più della metà dei quali provocati da mine improvvisate (2.949). I civili sono ancora la maggioranza delle persone coinvolte negli incidenti rappresentando l’80% del totale, e di questi circa la metà coinvolge bambini (43%). «I gruppi considerati ribelli, quindi eserciti non regolari – racconta Giuseppe Schiavello – si procurano o si costruiscono mine artigianali o esplosivi, trappole esplosive, che funzionano di fatto come le mine. È un fenomeno che può essere poco controllato. Inoltre sono ordigni più instabili e più rischiosi».

I detrattori della Convenzione usano spesso questo aspetto critico per considerare inefficace il trattato. È una critica giusta?

«Diciamo che una prospettiva può essere quella di dire che questi gruppi si procurano e costruiscono questi ordigni perché non hanno disponibilità degli altri. Bisogna considerare che non può essere la stessa cosa una linea di produzione industriale e degli esplosivi artigianali. Questo però non significa che poi le popolazioni civili non siano messe a rischio da ordigni come questi, che per certi versi sono più pericolosi per la loro instabilità e anche il fatto che vengono utilizzati con una prospettiva terroristica. Con una modalità che tende a voler necessariamente colpire, fare del male a chiunque si avvicini».

C’è invece un Paese in particolare che preoccupa, ed è il Myanmar, che nell’ultimo anno è stato l’unico Stato a fare uso di mine antipersona. Come mai?

«Purtroppo bisogna notare che tra i leader di quello Stato c’è anche un Premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi, e questa è una spina nel fianco nelle considerazioni della campagna internazionale che ha preso un Premio Nobel per la Pace nel 1997. Jody Williams, la fondatrice della Campagna Internazionale per il Bando delle Mine Antipersona, ha dato vita a un comitato di donne Nobel per la Pace, e preoccupa il fatto che proprio anche in virtù della presenza di Aung San Suu Kyi queste mine vengano ancora utilizzate. C’è stata un’azione da parte della rete internazionale, le sono state scritte delle lettere della campagna internazionale e ognuno di noi fa pressione sul proprio Paese affinché la cooperazione dia un segnale. Si coopera con tutti questi Paesi che stanno compiendo una transizione, si spera verso la democrazia, e c’è bisogno di fare pressione affinché smettano di utilizzare totalmente le mine antipersona. In questo caso la situazione è peggiorata dal fatto che la popolazione Rohingya, costretta alla fuga in Bangladesh nel 2017, si è spostata su terreni e confini minati diventando vittima predestinata di queste armi. Insomma, c’è una una grande preoccupazione in questo senso».

Il trattato per la messa al bando delle mine antipersona funziona anche per chi non ne fa parte, al netto del caso del Myanmar?

«Assolutamente sì. C’è da da notare che nel momento in cui 164 Paesi bloccano le proprie frontiere alle mine, diventa difficile anche far transitare certi ordigni, ci sono impedimenti anche tecnici e logistici. Le triangolazioni non sono più sostanzialmente possibili in 164 Paesi».

Si ritiene che un importante ragione di questo ottimo funzionamento vada ricercato nel cosiddetto “effetto stigma”. Anche a distanza di 23 anni dalla firma della Convenzione continua ad essere efficace l’effetto di isolamento morale più ancora che normativo?

«L’effetto stigma è molto importante. L’abbiamo visto con gli Stati Uniti: soltanto un personaggio come Trump poteva pensare di fare dei passi indietro in questo senso. Speriamo che Biden ritorni immediatamente sui binari del passato. Ci sono delle forti spinte che funzionano anche in ambito finanziario, tant’è che due produttori di bombe a grappolo americani hanno smesso di produrle perché i fondi di investimento americani hanno cominciato a dissociarsi da quel tipo di investimento. Si sa che anche i soldi sono un buon elemento di pressione sulle aziende. Questo è quello che stiamo cercando di fare anche in Italia con la legge sul disinvestimento, che sta procedendo lentamente ma sta andando avanti con convinzione e devo dire con l’appoggio trasversale di tutti i parlamentari».

Foto di LamacchiacostaLa mina antiuomo TS-50, costruita dall’italiana Valsella meccanotecnica SpA e tutt’oggi sepolta in grandi quantità nelle campagne dei territori contesi tra Iraq e Kurdistan