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La Libia verso le elezioni, ma nel Paese e nel Mediterraneo si continua a morire

Lunedì 9 novembre si sono aperti a Tunisi i colloqui tra le parti che da anni sono in guerra in Libia. Si tratta di negoziati mediati dalle Nazioni Unite con lo scopo di organizzare le prime elezioni nazionali unitarie, da cui si auspica possa emergere un Paese nuovo e finalmente riconciliato dopo quasi dieci anni di conflitto cominciato con la cacciata di Gheddafi nel 2011.

Le speranze intorno a questi colloqui era alta già in partenza, al punto che la nuova inviata speciale delle Nazioni Unite, Stephanie Wilson, aveva dichiarato in apertura che si tratta della «migliore occasione degli ultimi sei anni per porre fine alla guerra civile», chiarendo però che «la strada per l’accordo non sarà lastricata di rose e non sarà facile raggiungere un buon risultato».

A conferma di queste speranze, mercoledì 11 è stato raggiunto l’accordo preliminare su una tabella di marcia per le elezioni parlamentari e presidenziali che include misure per unire le istituzioni libiche e tenere il voto entro 18 mesi. Ad accompagnare i negoziati è anche un cessate il fuoco concordato lo scorso 23 ottobre tra le principali parti in guerra: il governo di accordo nazionale (GNA) con sede a Tripoli e l’Esercito nazionale libico (LNA) insediato tra Bengasi e Tobruk.

Tuttavia, le occasioni mancate in questi anni sono state così numerose da costringere a un certo scetticismo, molto diffuso soprattutto all’interno della Libia stessa, dove la tregua regge, ma dove gli episodi allarmanti non mancano. Tra questi, l’omicidio avvenuto martedì 10 novembre a Bengasi dell’avvocata dissidente Hanan Al-Barassi, colpevole di aver criticato il figlio del generale Khalifa Haftar e il ministro dell’Interno dell’esecutivo della Cirenaica.

Questo omicidio è uno tra i segnali più evidenti di quanto la situazione nel Paese sia tutt’altro che stabile, nonostante gli eserciti rivali non si stiano più scontrando. «In questo periodo di transizione – si legge nella nota mensile della Konrad Adenauer Stiftung – sia le autorità orientali che quelle occidentali devono attivarsi contro la crescente criminalità». I gruppi armati infatti non si fermano.

Di conseguenza, a fare le spese dell’instabilità sono ancora una volta rifugiati e persone migranti che si trovano sul territorio libico, spesso rinchiuse in centri di detenzione molto lontani dagli standard richiesti dalle istituzioni internazionali da qualsiasi punto di vista, dalla sanità alla sicurezza. Sono due gli ultimi episodi che mostrano in modo chiaro il fallimento nella protezione delle persone più vulnerabili in un contesto di instabilità come quello della Libia dell’ultimo decennio.

Martedì 10 novembre un richiedente asilo eritreo di 15 anni è stato ucciso in un centro di detenzione a Tripoli, nella zona di Gargaresh, da sei uomini armati che sono entrati nel centro e hanno cominciato a sparare, ferendo anche altre due rifugiati.

L’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, UNHCR, ha riferito che la vittima era in attesa di reinsediamento fuori dalla Libia in un Paese terzo, confermando le difficoltà di mettere in atto processi di messa in sicurezza per le persone che si trovano in questi centri, vittime da sempre di criminali comuni, trafficanti di esseri umani e di continue violenze e ricatti verso di loro o verso le famiglie, che si spingono fino al rapimento per estorsione o alle violenze sessuali come strumento di potere.

Per moltissimi rifugiati, l’unica strada possibile è quella di una nuova migrazione, questa volta verso l’Europa attraverso il Mediterraneo. Ma l’ultima settimana ha portato notizia di quasi 100 morti in mare, complice un meteo in peggioramento e un mare in cui, a causa delle scelte politiche italiane ed europee, nessuno ha più la possibilità di effettuare salvataggi.

Dopo il naufragio di mercoledì al largo di Sabratha dove, nonostante l’intervento della ong spagnola Open Arms, hanno perso la vita sei persone migranti tra i quali un neonato di sei mesi, giovedì almeno altre 94 persone sono morte in due diversi naufragi avvenuti davanti alle coste libiche. A darne notizia sono state l’Organizzazione internazionale per le migrazioni e Medici senza frontiere che riportano le testimonianze raccolte dai loro operatori presenti nel Paese nordafricano.

Per l’Oim, sono oltre 900 le persone che solo quest’anno hanno perso la vita cercando di raggiungere l’Europa, mentre più di 11.000 sono state riportate in Libia, ancora una volta esposti alla detenzione e alle sistematiche violazioni dei diritti umani fondamentali.

Oggi, Open Arms è l’unica imbarcazione di ricerca e salvataggio presente nel Mediterraneo. Altre sei sono ferme nelle secche di norme e sanzioni amministrative dettate da norme italiane ed europee che penalizzano gravemente i soccorsi in mare, ma soprattutto condannano a morte centinaia di persone.

Proprio per questo, il tempo è un fattore fondamentale nella definizione di un nuovo quadro politico libico. Tuttavia, al netto delle dichiarazioni di speranza di chi partecipa ai negoziati di Tripoli, il percorso è appena cominciato.

Il panorama politico della Libia infatti rimane altamente frammentato: le alleanze tradizionali si stanno erodendo, mentre tutti gli attori politici sembrano molto interessati ad assicurarsi un futuro politico indipendentemente dal risultato dei negoziati. Di conseguenza, dietro alle dichiarazioni d’intenti manca per ora una reale strategia politica orientata a portare la Libia fuori da un periodo di transizione che dura da dieci anni e che ha visto il Paese diventare sempre più preda di interessi internazionali, da quelli turchi a quelli egiziani, fino alla distanza tra le diverse cancellerie europee, incapaci di trovare una posizione che vada oltre gli interessi locali e che si renda conto della necessità di un Paese pacificato, stabile e all’interno del quale avviare un percorso che conduca al rispetto dei diritti umani. Oggi tutto questo non sembra appartenere ai negoziati di Tripoli.