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Tacciono le armi in Nagorno-Karabakh

Un “cessate il fuoco” per il Nagorno-Karabakh, regione separatista dell’Azerbaijan ma a maggioranza armena, ufficialmente chiamata Repubblica dell’Artsakh. È questa la notizia con cui la regione del Caucaso meridionale è andata a dormire nella serata di lunedì 9 novembre.

Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha firmato lunedì insieme al presidente azero Ilham Aliyev un accordo mediato dalla Russia per porre fine alla guerra in corso con l’Azerbaijan, riconoscendo di fatto una sconfitta che è al tempo stesso militare e politica, ma che ha il merito di chiudere uno tra i capitoli più tragici per la regione.

«Personalmente – ha scritto Pashinyan annunciando l’accordo – ho preso una decisione molto difficile per me e per tutti noi. Non è una vittoria, ma non c’è sconfitta».

I tre precedenti “cessate il fuoco”, negoziati da Russia, Francia e Stati Uniti, erano falliti, ma questo sembra offrire una prospettiva differente, almeno per tre ragioni.

Prima di tutto, si tratta del primo accordo pubblicamente e ufficialmente riconosciuto dai vertici dei Paesi in conflitto.

In secondo luogo, la Russia invierà in Nagorno-Karabakh 2.000 soldati e 100 mezzi corazzati per operazioni di riduzione del conflitto e mantenimento della pace. I soldati saranno dislocati lungo i confini del Nagorno-Karabakh, e lungo il “corridoio di Lachin”, una striscia di terra che consente i collegamenti tra l’Armenia e la regione, e rimarranno sul territorio per cinque anni.

Inoltre, l’accordo di lunedì 9 novembre ridisegna la mappa del Caucaso meridionale in modo più radicale di quanto sia successo negli ultimi decenni, spostando gli equilibri di quest’area collocata tra Russia e Turchia in favore di quest’ultima, che ha sostenuto l’Azerbaijan nella ripresa del conflitto a settembre.

Secondo quanto stabilito, infatti, l’area propriamente detta Nagorno-Karabakh, che ricalca i confini dell’Oblast autonomo del Nagorno-Karabakh di epoca sovietica, sarà parzialmente mantenuto sotto il controllo e la protezione dei soldati russi, mentre tutto il resto delle aree occupate dall’Armenia passerà sotto il controllo dell’Azerbaijan: sia i territori che gli armeni hanno già conquistato militarmente e che potranno tenere, sia quelle che l’Armenia dovrà cedere entro il 1 dicembre. Inoltre, la città di Shusha (o Shushi per gli armeni) rimarrà sotto il controllo azero.

 

Il momento di svolta nella guerra è arrivato proprio con la conquista di Shusha, una tra le principali città del Nagorno-Karabakh, collocata in una posizione strategica. Shusha sorge infatti sulla montagna che domina la capitale del Nagorno-Karabakh, Stepanakert, dalla quale dista una ventina di chilometri circa.

Inoltre, avere il controllo su Shusha consente di controllare anche la principale via di comunicazione tra l’Armenia e il Nagorno-Karabakh, che non sono ufficialmente confinanti: si tratta del “corridoio di Lachin”, attraverso il quale passano i rifornimenti armeni per l’Artsakh. La strategia seguita dall’Azerbaijan si è basata proprio sul dividere il Nagorno-Karabakh dall’Armenia, per poi occupare Shusha e infine attaccare la capitale, Stepanakert.

Alla luce di questo, l’esercito armeno, che rispetto a quello azero ha armi peggiori e meno addestramento, si è trovato incapace di organizzare un contrattacco, portando il Paese verso un “cessate il fuoco” che di fatto segna una sconfitta.

Tuttavia, per l’Armenia e ancora di più per gli abitanti dell’Artsakh, il conflitto non era più sostenibile. Da settembre, ovvero dalla nuova escalation in un conflitto cominciato nei primi anni Novanta, si ritiene che siano morte fino a 5.000 persone, mentre decine di migliaia di civili sono fuggiti dalla regione rifugiandosi in Armenia, il cui ritorno verrà ora supervisionato dalle Nazioni Unite, insieme a quello degli azeri fuggiti nel 1994.

Oltre a cedere il proprio controllo sulla regione montuosa a maggioranza armena, Erevan ora dovrà creare un secondo corridoio per collegare l’Azerbaijan alla regione di Nakhcivan, una parte di territorio azero geograficamente separato dal resto del paese.

Il presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev ha descritto l’accordo come una vittoria per il suo Paese e una “riconquista” di territori che Baku non ha mai smesso di considerare propri.Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, si è congratulato con Aliyev, ma è chiaro che la Turchia abbia svolto un ruolo fondamentale in questa operazione militare. L’Azerbaijan, infatti, ha ricevuto droni e armi di ultima generazione di fabbricazione turca e israeliana, mentre i soldati e gli ufficiali azeri sono stati addestrati dai turchi secondo gli standard della NATO, di cui la Turchia rappresenta la seconda forza militare. Oltre a questo, soprattutto nelle prime fasi di questa escalation la Turchia aveva inviato in Nagorno-Karabakh mercenari provenienti dal conflitto siriano.

A poche ore dall’annuncio, nella capitale dell’Armenia, Erevan, sono scoppiate le proteste. Una folla ha fatto irruzione nell’edificio governativo e ha strappato la targhetta di Nikol Pashinyan dalla porta del suo ufficio, accusandolo di tradimento.

Per l’Armenia, la sconfitta in questo nuovo capitolo di un conflitto lungo trent’anni, rischia di avere effetti pesanti, tanto sulla politica estera quanto su quella interna. Per alcuni armeni, inoltre, si tratta di una questione ancora più profonda, che affonda le sue radici nel genocidio degli armeni del 1915.

Per tutto questo tempo, il governo dell’Azerbaigian ha promesso che in caso di riconquista del Nagorno-Karabakh avrebbe garantito i diritti dell’attuale popolazione armena, oltre a un alto livello di autonomia politica da Baku.

Tuttavia, questi mesi di guerra hanno fatto riemergere una retorica sempre più pesante e violenta, che definisce gli armeni “il più grande nemico degli azeri”.

Eppure, queste due popolazioni hanno vissuto pacificamente insieme nel Nagorno-Karabakh per secoli. I primi scontri interetnici ebbero luogo nel vuoto di potere del declino dell’Impero russo. Successivamente, l’Unione Sovietica, per la prima volta nella storia della regione, tracciò confini interni che cercavano di corrispondere alla composizione etnica del territorio, ponendo fine all’approccio imperiale che prevede invece l’integrazione delle minoranze sotto un unico Paese. Nel Caucaso, inoltre, la suddivisione etnica è un esercizio praticamente impossibile ed evidentemente dannoso.

Ora la responsabilità di mantentere la propria parola sta all’Azerbaijan, vincitore di una guerra che tra cinque anni, quando le forze di interposizione russe se ne saranno andate, potrebbe vivere una nuova fase.