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Etica è una parola bellissima

Ad alcuni giornali e giornalisti la parola «etica» fa venire l’orticaria, solo a sentirla nominare. 

Sono quelli che pensano che la libertà di parola sia la libertà di seminare odio, di scrivere fatti che nulla hanno a che vedere con la realtà e che esistono solo nella logica della propaganda di una certa politica. 

Sono quei giornalisti che usano l’Articolo 21 della nostra Carta Costituzionale come un alibi e che pensano che questo li autorizzi a scrivere quello che vogliono senza dover fare attenzione al rispetto delle regole, della deontologia, dell’etica professionale. 

Sono quelli che, di mestiere, fanno gli «spaventatori»; quei giornalisti che, in effetti, con il giornalismo e con il racconto dei fatti hanno davvero poco a che fare.

Noi di Carta di Roma (Associazione fondata nel dicembre 2011 per dare attuazione al protocollo deontologico per un’informazione corretta sui temi dell’immigrazione, siglato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti (Cnog) e dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana (Fnsi) nel giugno del 2008 e che vede tra i fondatori e nel direttivo la Federazione delle chiese evangeliche in Italia – Fcei) pensiamo, invece, che «Etica» sia una parola bellissima, parola che rende il giornalismo un mestiere nobile e che offre alla professione uno strumento di civiltà. 

Etica, significa rispetto e noi siamo convinti che il giornalismo debba essere fondato innanzitutto sul rispetto della verità sostanziale dei fatti e così della dignità delle persone che raccontiamo.

Facciamo parte di un’ampia comunità che condivide il concetto di «civiltà giornalistica», quella che ci ostiniamo a promuovere e a difendere. Quella scritta nelle Carte deontologiche che spiegano che i bambini vanno tutelati, che le donne vanno rispettate, che le scelte sessuali sono un fatto intimo, che la parola «invasione» sia corretta per raccontare una guerra, ma che non vada bene se questa è riferita a qualche migliaio di persone che cercano disperatamente di sopravvivere. 

Ci sono delle regole che sono sin troppo banali e che devono essere ripetute costantemente, perché continuamente sotto attacco.

Noi facciamo questo: promuoviamo quelle regole. 

Recentemente abbiamo firmato un protocollo d’intesa con L’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) per una serie di attività formative. 

Non c’è davvero niente di strano in quest’accordo, tantomeno di segreto, eppure un giornale ha deciso di scriverne, raccontando quest’iniziativa nel proprio titolo gridando allo scandalo: «Il governo vuole rieducare i giornalisti».

Sembra chissà quale atto di prepotenza, e poi si legge il sottotitolo e l’aggressività si smonta da sola: «Palazzo Chigi finanzia corsi per sensibilizzare ai temi della discriminazione etnica e sessuale». C’è davvero qualcosa di sbagliato?

Letto il resto dell’articolo con il direttore dell’Unar, Triantafillos Loukarelis, abbiamo pensato che nonostante quel titolo allarmistico, quel pezzo che voleva aggredire in realtà sembrava fare pubblicità ai corsi di formazione. 

Insomma, un attacco sì, ma congegnato malissimo e fallito miseramente.

La rieducazione è un concetto che non mi appartiene, ma suggerirei di provare a istituire «l’Albo degli spaventatori», così che possano farsi i loro corsi di formazione e imparare, almeno, a spaventare con una qualche efficacia. Immagino sia un’idea troppo estrema.

La sola cosa che so per certo è che gli spaventatori non dovrebbero avere il privilegio di definirsi giornalisti perché comportandosi così fanno un altro mestiere e non certo il nostro che è il mestiere più bello del mondo.