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L’Etiopia sull’orlo della guerra civile

L’Etiopia è sull’orlo della guerra civile. A vederlo dall’esterno, tutto è avvenuto quasi all’improvviso, minacciando la stabilità di una delle regioni più strategiche del mondo, il Corno d’Africa, e la frattura in uno dei Paesi più potenti e popolosi del continente africano, segnato negli ultimi anni da grande crescita e grandi speranze.

Tuttavia, la crisi tra Addis Abeba e il resto del Paese è in corso da mesi, per ragioni che sono politiche, economiche, ma anche di rappresentanza. Per il primo ministro Abiy Ahmed, insignito del Premio Nobel per la pace nel 2019 per la pace con l’Eritrea, si tratta di una sfida che potrebbe avere un prezzo molto alto.

Nella mattinata di mercoledì 4 novembre, le comunicazioni sono state interrotte nella regione settentrionale del Tigray, mentre Abiy ha annunciato di aver ordinato alle truppe di rispondere a un presunto attacco condotto dalle forze del Tigray contro una base militare etiope. Eppure, entrambe le parti si sono accusate a vicenda di aver iniziato i combattimenti.

Entrambi, poi, hanno intensificato la pressione nelle ore successive, al punto che nella serata di giovedì l’esercito etiope ha annunciato di aver schierato truppe da tutto il paese nel Tigray. Il punto è che si fronteggiano due forze grandi e ben addestrate: l’Etiopia è una delle nazioni più ben armate dell’Africa, mentre il Fronte di liberazione popolare del Tigray dominava l’esercito e il governo dell’Etiopia prima che Abiy si insediasse nel 2018.

Ma come siamo arrivati a questo punto? Carmen Bertolazzi, presidente dell’IISMAS (Istituto Internazionale Scienze Mediche Antropologiche e Sociali), che conduce da anni progetti di cooperazione in Tigray, spiega che «i rapporti sono stati conflittuali sin dall’inizio, sin dalla nomina di Abiy come primo ministro».

È un conflitto etnico, come viene raccontato da alcuni?

«Sicuramente vi è un problema di relazioni tra le varie etnie, ma non è solo questa la spiegazione. È vero che i tigrini, dopo aver sconfitto il governo socialista del Derg, avevano posizioni privilegiate nel potere centrale etiope. Questo derivava non tanto dall’entità della loro popolazione che è intorno al 6%, ma dal fatto che loro avessero combattuto e vinto contro il Derg. Inoltre la loro popolazione era molto più acculturata, aveva studiato, era stata all’estero. Forse anche la vicinanza con l’Eritrea, quindi con una formazione colonialista italiana, aveva dato dei vantaggi a questa etnia rispetto a delle altre. Quindi, che loro occupassero posizioni di potere ovunque, dal governo ma anche altrove, era un dato assodato. Per esempio l’esercito era sempre stato guidato dai tigrini, famosi per le loro competenze in campo militare. Ancora oggi, la parte militare dell’Unione africana è occupata moltissimo da forze etiopi e a conduzione tigrina. È evidente che questo cambio di potere aveva sicuramente prodotto del malcontento, però si pensava sarebbe stato assorbito poi nel tempo e anche con una distribuzione e più equa delle posizioni più importanti a livello politico, economico, militare».

Questo però non è avvenuto. Come mai?

«Si è scatenato uno sconvolgimento totale delle relazioni fra le varie etnie. Gli oromo, per esempio, all’inizio erano molto favorevoli alla nomina di Abiy come primo ministro, ma poi invece per tutta una serie di fattori invece sono diventati dei suoi oppositori, anche con divisioni interne. Questo vale anche per altre etnie, come gli Afar o le etnie del sud dell’Etiopia, quindi lo scacchiere etnico si è molto differenziato e con alleanze diverse e trasversali. Del resto, lo stesso Abiy è in parte oromo, ma anche un po’ tigrino e amhara. Qui succede molto spesso, perché le persone delle varie etnie si sposano fra di loro, non c’è una così forte discriminazione o differenza.

Quello che sicuramente ha creato una grande discussione è stata questa idea del primo ministro Aby di superare le divisioni etniche e quindi le varie regioni. Oggi l’Etiopia è una confederazione, mentre l’idea di Abiy è di fare un’Etiopia unica, un partito unico, mentre invece oggi ci sono molti partiti regionali, e la sua proposta era il Prosperity Party, cioè il partito della prosperità. L’idea di arrivare a un nazionalismo che ricordava anche dei passaggi non poco sofferenti del passato, ha scatenato le proteste e quindi la non adesione al suo programma».

Un altro fattore scatenante può essere stato anche il continuo rinvio delle elezioni e il problema della legittimità del voto in Tigray?

«Le elezioni sono state spostate con la motivazione del Covid, però il 5 ottobre era l’ultima data possibile per quello che stabilisce la Costituzione nel campo della validità delle cariche politiche. Si doveva votare a luglio-agosto, ma il primo ministro le aveva di nuovo trasferite a data da stabilirsi. I tigrini non avevano accettato questo rinvio e avevano fatto la loro elezione regionale. Infatti hanno eletto il nuovo organismo regionale, l’assemblea regionale e il nuovo presidente del Tigray. Abiy ha sempre rifiutato di riconoscere la legittimità del voto, e quando la Corte elettorale, pochi giorni fa, ha stabilito una data per il voto, ha chiesto al Tigray di adeguarsi alle nuove disposizioni. Al rifiuto del Tigray, Abiy ha minacciato di escludere la regione dal budget, ricevendo in risposta la minaccia di non più contribuire al pagamento delle tasse».

Da qui, si è arrivati a questa azione militare di cui non si capiscono bene i contorni, né per le cause né per lo svolgimento. Che cosa sappiamo finora?

«Il primo ministro ha accusato i militari del Tigray di aver assalito un presidio militare federale, mentre secondo i tigrini il presidio militare federale, quindi diretto da Aby, si sarebbe ammutinato e avrebbe rifiutato l’ordine militare di attaccare i tigrini. Però poi da li è calato il silenzio. Non abbiamo più altre notizie, c’è un blackout dell’informazione che non è così strano, avviene anche in altri periodi quando ci sono delle proteste, quindi non c’è telefono, non c’è internet. Il Tigray è completamente isolato. Sono stati cancellati anche i voli interni, quindi da Addis Abeba non si può andare a Macallè, ad Aksum, A Shirè, e hanno sospeso anche i voli su Gondar, che non sta nel Tigray ma è molto prossima».

Qual è finora la reazione della comunità internazionale?

«Ci sono molti appelli a livello personale, anche molte persone che conosco in Etiopia, non tigrini, dicono che la comunità internazionale deve intervenire, perché non possiamo avere una guerra fratricida. Però ancora non ho letto delle prese di posizione della comunità internazionale, dell’Unione europea, di vari altri Paesi.

Sarebbe anche interessante capire come si muovono anche i Paesi intorno: un ruolo importante ce l’hanno sempre avuto gli Stati Uniti, che però ora sono in tutt’altre faccende affaccendati, ma c’è anche una forte presenza degli Emirati Arabi Uniti, dell’Unione europea, penso anche alla Cina che ha tantissimi interessi economici nel paese, e poi c’è la grande incognita dell’Eritrea. Tutti si aspettano una presa di posizione di Asmara, perché l’Eritrea, come si sa, grazie proprio al primo ministro Abiy ha siglato un accordo di pace con l’Etiopia».

Che cosa era successo allora?

«Subito dopo la firma si erano aperte le frontiere, questa è stata una cosa molto importante, perché si sono ricongiunte delle famiglie, visto che il Tigray e l’Eritrea hanno la stessa lingua, erano uniti prima. Quando c’è stata la divisione si sono spaccate le famiglie, le comunità, addirittura dei villaggi si sono divise a metà. L’apertura, la pace con la popolazione eritrea per i tigrini è stata molto importante. Certo, quello che è accaduto poi è anche immaginabile: per la situazione che c’è in Eritrea che tutti conosciamo, grande povertà, grande difficoltà nella vita quotidiana, ma soprattutto per i giovani un servizio militare a tempo indeterminato, moltissimi eritrei, soprattutto giovani che prima venivano come profughi, quindi attraversando la frontiera illegalmente, ora potevano venire direttamente in Etiopia e fermarsi lì. Dopo alcuni mesi le frontiere si sono di nuovo chiuse, peraltro creando un problema grossissimo sui campi profughi eritrei: con gli accordi di pace, in teoria non ci dovevano più essere profughi ma al massimo persone che lasciavano l’Eritrea per andare in Etiopia per ricongiungimenti familiari, quindi anche i campi profughi che stanno proprio nella zona di confine a un certo punto sono stati abbandonati, o comunque hanno avuto meno sostegno dalle agenzie internazionali. L’ultima volta che mi sono recata in Etiopia nei campi profughi dove noi operiamo con degli screening medici ho visto una situazione completamente cambiata, anche con abbandoni di minori, impossibilità di comprare farmaci per i profughi, situazioni molto complicate. In Italia lo status di rifugiato agli eritrei continua a essere riconosciuto, perché così dev’essere».

Alla luce di questo, cosa ci si aspetta dall’Eritrea?

«L’Eritrea è un’alleata del primo ministro Abiy, quindi c’è anche il rischio che il Tigray, se continua questa deriva militare possa essere attaccato non solo dall’interno ma anche dalla parte Eritrea. Lo scenario è veramente preoccupante».

Quali potrebbero essere le conseguenze per la popolazione?

«Sarebbe un disastro, come in parte è già ora. È una zona povera, rocciosa, in cui manca l’acqua, quindi non è facile per la popolazione sopravvivere, ci sono molti villaggi isolati, che hanno bisogno di tutto. Questo è un po’ anche il lavoro che noi facciamo, grazie anche ai fondi della tavola valdese, per cui siamo riusciti a portare acqua negli ospedali e ultimamente a costruire delle case della maternità per le donne proprio nelle zone più difficili, dove le gravidanze a rischio possono essere veramente pericolose per le mamme e per i neonati. Quindi c’è una realtà molto difficile, già minata dalla questione del Covid: anche se non ci sono numeri altissimi, qui sono state applicate soprattutto durante la stagione fredda delle piogge che è stata luglio-agosto delle misure preventive, cioè di chiusura nei villaggi, ma questo ovviamente ha messo in crisi il settore alimentare, per via della difficoltà ad andare nei campi e di raggiungere i mercati. In più sono arrivate nel Tigray anche le cavallette, con estesa distruzione dei campi e accuse al governo centrale di non aver fornito le sostanze chimiche per combatterle. Ricordo poi che oltre ai campi profughi ancora che ospitano decine e decine di migliaia di profughi dell’eritrea, c’è stato il problema recente dettato dalle divisioni e scontri etnici, per cui in Tigray ci sono anche sfollati tigrini che stavano da decenni in altre regioni ma che hanno dovuto lasciare la casa e il lavoro e ritornare nella regione da cui erano partiti. Quindi c’è un’emergenza sociale grossissima e la comunità internazionale deve assolutamente intervenire, deve trovare una soluzione».

Esiste una soluzione?

«Si è parlato di un governo di emergenza, di transizione rispetto alle elezioni che prima o poi occorrerà fare, però bisogna assolutamente che emerga una un soggetto terzo, una mediazione internazionale, perché questa situazione non è sostenibile.

Peraltro ricordiamo anche che l’Etiopia confina con la Somalia, dove ci sono problemi di altro genere e che ha sempre fatto da blocco rispetto all’ingresso di gruppi estremisti terroristici. In una situazione di guerra interna ovviamente tutto questo viene a cadere, quindi è un danno per tutto lo scacchiere del Corno d’Africa».