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L’antivirus e il paradigma americano

Anteprima dell’editoriale pubblicato dal settimanale Riforma-Eco delle valli valdesi.

Qual è il ruolo del giornalismo nell’emergenza Covid-19? La risposta a questa domanda sarà il filo conduttore delle tre Giornate di premiazione del Premio “Roberto Morrione” per il giornalismo investigativo (iniziativa sostenuta grazie all’Otto per mille delle chiese metodiste e valdesi e che vede Riforma come media partner), che si svolgeranno online da giovedì 29 a sabato 30 ottobre. 

Può l’informazione piegarsi alla manipolazione politica di questa pandemia che ha già fatto oltre un milione e centomila vittime nel mondo? La risposta dovrebbe essere un secco no. Come quello opposto dai media americani al presidente Donald Trump tra la fine di marzo e l’inizio di aprile di quest’anno, quando le più importanti catene televisive decisero di non seguire più in diretta le conferenze stampa dalla Casa Bianca per evitare di trasformarsi in megafoni di messaggi scellerati come quelli che Trump voleva trasmettere alla pubblica opinione: minimizzando la pericolosità del virus («è come un’influenza», «sparirà da solo»); suggerendo soluzioni fai da te per curarsi («basta un’iniezione di disinfettante»); utilizzando il rischio globale del Covid-19 per accusare la Cina senza uno straccio di prova («il coronavirus è stato prodotto in un laboratorio segreto di Wuhan»).

Il paradigma americano nel rapporto politica/informazione non si è esaurito in quella decisione, ovviamente. Nei primi mesi della pandemia, il New York Times schierò una squadra di reporter a caccia di dati attendibili sulle conseguenze che il virus stava provocando, contrapponendo ai numeri dell’amministrazione quelli reali sul numero delle vittime, una per una con nome e cognome. Un lavoro di raccolta e verifica che smascherò il tentativo di sottovalutare la strage che il virus stava facendo nel paese e mise Trump nell’angolo. Da questo punto di vista, un esempio di come l’informazione può funzionare nel ruolo di cane da guardia del potere. Ma anche, bisogna ricordarlo, una sorta di riscatto rispetto alla confusione di cui gli stessi media furono protagonisti nel febbraio 2003, quando accettarono supinamente le prove (false) della presenza di armi chimiche nell’Iraq di Saddam Hussein che giustificarono l’invasione, con le conseguenze che conosciamo.

Senza volerla magnificare (che cosa dovrebbero fare i giornalisti se non questo?), la lezione americana è un punto di partenza per riflettere su quello stesso rapporto tra informazione e politica anche nel nostro paese. Basta pensare al balletto delle mascherine e alla loro efficacia nel contenere il contagio, interpretato in questi mesi da molti esponenti di partito – tolte, messe, demonizzate, rimesse – che una parte dei media italiani ha agevolato senza elaborare un pensiero critico, ma solo per sostenere questo o quel leader di riferimento. Per non parlare dello schierarsi pro o contro e senza alcun approfondimento nella battaglia tra i virologi oppure sull’allarme che, a esempio, ha portato al nuovo lockdownanche per tutti i cinema e i teatri – un solo caso di positività accertato in meno di quattro mesi con 2782 spettacoli e 347.262 spettatori (dati Agis) può giustificare questa chiusura?

Fatte rare eccezioni, poche inchieste o troppo frammentate sulle condizioni della sanità sul territorio, la rincorsa affannosa alla cosiddetta informazione alternativa veicolata dai social, scarsa volontà di scavare dietro le notizie per scoprire casi di corruzione, familismo, infiltrazioni mafiose, incapacità di gestione del sistema a ogni livello, dalla Asl fino alla macchina centrale del governo. Questa la fotografia non esaltante dell’informazione italiana. Inquinata da una tendenza generalizzata a non disturbare o disturbare appena il manovratore, frutto di limiti storici e di un’editoria spesso impura (servizio pubblico compreso) che considera i media non come imprese fondate sulla necessità di fornire notizie ai cittadini, sulla credibilità e la competizione, ma come strumenti utili a raggiungere scopi diversi da quelli di un’informazione responsabile, pilastro di ogni democrazia compiuta.

A metà degli anni Settanta, l’allora prestigioso settimanale Panorama diretto da Lamberto Sechi lanciò una campagna pubblicitaria con uno slogan semplice ma efficacissimo: «I fatti separati dalle opinioni». Ecco, basterebbe forse ricominciare da lì. Con più fatti da raccontare e da investigare e meno opinioni per spazzolare l’immagine del politico di turno. Se non in una emergenza come questa, quando?