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Keith Jarrett. L’ultima nota è nell’anima.

Ogni nota soppesata da Jarrett è un’autentica sorpresa e per capirlo basta ascoltare l’infinita produzione discografica realizzata dall’artista in studio e dal vivo.

Nessuno, tantomeno lui, conosceva quale nota musicale avrebbe accarezzato sui tasti dei pregiati pianoforti accordati in modo maniacale e messi a sua disposizione dai più autorevoli palchi teatrali del mondo.

Jarrett non suonerà più. Due gravi ictus in questi anni hanno compromesso gravemente la sua salute e fermato la sua attività concertistica.

Laconico è arrivato l’annuncio: «La metà del mio corpo è ormai paralizzata – ha detto Jarrett –, non potrò più suonare. Anche la mia memoria presenta problemi, talvolta non ricordo gli standard che ho suonato per una vita intera. Mi spiace, ma non sono più un pianista».

Jarrett è sempre stato un visionario (forse timido) irascibile e geniale.

Aveva un tocco innovativo, unico, inimitabile; eppure molte generazioni di pianisti hanno tentato di emularlo, di riprodurre il suo fraseggio, il suo suono.

Jarrett era un pianista completo, un’icona per gli amanti del Jazz. Sul palco ha sempre preteso di esplorare le infinite sonorità e sfumature del suo strumento.

Solo gli interminabili applausi alla fine di ogni esecuzione – o concerto – risvegliavano Jarrett dall’ipnosi musicale alla quale egli stesso si sottoponeva, da quel mondo di note che eseguiva e che lo rapiva. Allora, solo allora, sorrideva appena.

Era irascibile e se qualcuno tossiva o rumoreggiava mentre suonava s’indispettiva. Spesso smetteva di suonare, lasciando il pubblico attonito.

Dagli studi classici (Bach era uno dei compositori preferiti che ha omaggiato con registrazioni eseguite al pianoforte al clavicembalo), Jarrett è arrivato in giovanissima età a suonare con i più importanti musicisti di jazz a livello internazionale.

Oggi il lascito di Jarrett è prezioso.

Come le registrazioni degli standard eseguiti con la sua formazione in trio, ad esempio. Un’avventura realizzata insieme ai compagni di viaggio di una vita Gary Peacock (recentemente scomparso) e Jack Dejohnette; lo è la sua attività in studio e concertistica, sublime, dedicata al pianoforte solo.

Ogni concerto di Jarrett è un’istantanea; una foto ricordo della sua vita e carriera.

Jarrett, tuttavia, ha sempre preteso la perfezione. Una perfezione che si è sposata per lungo tempo con quella maniacale del produttore Manfred Eicher dell’etichetta Ecm, con il quale ha realizzato molte registrazioni discografiche.

Certamente è stato il pianista più innovativo, il più apprezzato, il più imitato. Colui che ha aperto le porte alla storia del jazz contemporaneo.

Per questo motivo nel 2018 Venezia gli ha conferito il Leone d’oro alla carriera. Un premio importante, incastonato tra mille altri riconoscimenti.

Un «Uomo-musica», dissero in quell’occasione. E non sbagliarono. Jarrett ha sempre fatto suonare il suo corpo insieme al pianoforte.

Le mani di Jarrett (oggi ferme per la malattia) erano un mezzo, uno strumento necessario per far vibrare la musica che già albergava nei suoi sentimenti: un Grand Hotel di note da accompagnare verso La Scala.

Le sue improvvisazioni e le sue esecuzioni sono oggi documenti sonori inestimabili, sono un’importante eredità. Sono memoria, sono infinito, sono bene comune. Seppur egli sia un mito vivente.

Non possiamo far altro che ringraziarlo per ciò che di miracoloso ha fatto, augurandoci che la sua musica e le sue registrazioni possano diventare, anche per lui, cura e sollievo.

Grazie Keith.