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I tre testi luterani del 1520

Tra l’estate e l’autunno del 1520 Lutero redige tre scritti fondamentali: ne parliamo con Silvana Nitti, docente di Storia del cristianesimo e delle chiese all’Università «Federico II» di Napoli e autrice della monografia sul riformatore pubblicata dall’editrice Salerno nel 2017. Quali sono, dunque, questi scritti e quale la loro importanza, quale il contesto in cui Lutero li scrive?

«Nel caso di Lutero il destinatario, e in generale il contesto in cui scrive, è molto importante. Infatti il suo lavoro – anche teorico – non era mai sistematico. Egli, cioè, non esponeva il suo pensiero secondo un criterio ordinato e sequenziale, in modo che ne risultasse una dottrina omogenea; invece, reagiva alle circostanze, ai problemi che incontrava, rispondeva alle domande di persone che gli chiedevano chiarimenti. Il 1520 fu un anno di svolta proprio in questo senso: gli avvenimenti incalzavano, e Lutero mandò alle stampe molti scritti su temi cruciali. Tra questi, tre sono ricordati come “gli scritti riformatori”, perché costituiscono i pilastri di quella che divenne poi la Riforma protestante: solo Cristo e la fede in lui salvano, e dunque il cristiano non ha più ragione di compiere opere finalizzate alla propria sorte personale, al contrario deve comprendere di che cosa il suo prossimo ha bisogno, e di conseguenza decidere responsabilmente come comportarsi; solo nella Parola di Dio (cioè la Bibbia, il suo testo scritto e la sua predicazione) risiede l’autorità, e non in un ceto di credenti distinto dagli altri: dunque nella chiesa non ci sono più laici e sacerdoti, ma tutti sono uguali, hanno il medesimo “diritto” di decidere, anche in materia di dottrina. Questi “pilastri” sono ovviamente collegati tra loro, e infatti compaiono, in misura diversa ma sempre connessa, in tutti e tre gli “scritti riformatori” del ‘20, e cioè l’appello Alla nobiltà cristiana,La cattività babilonese della chiesa e La libertà di un cristiano». 

– Nel suo testo «Alla nobiltà cristiana» Lutero parla di tre “muraglie” dietro il cui riparo Roma riteneva di difendere alcune sue prerogative esclusive: che cosa ne rimane?

«È evidente che cosa ancor oggi rimane delle “tre muraglie” che, come scriveva Lutero nell’Appello, imprigionavano la chiesa del suo tempo: rimane l’annullamento della distinzione fra chierici e laici, che porta con sé il rifiuto del monopolio ecclesiastico della interpretazione della Bibbia, e del potere esclusivo del papa di convocare il Concilio. Con questo scritto Lutero teorizzava e, insieme, spingeva a mettere in pratica la parità di tutti i credenti: se il papa e i vescovi non sono stati capaci di riformare la chiesa, devono farlo le autorità civili, che sono “sacerdoti” mediante il loro battesimo e hanno la responsabilità di governare i loro popoli in modo da garantire pace e benessere. Lutero propose riforme che riguardavano non solo il papato, la curia romana, l’abolizione del celibato dei preti, la riforma degli ordini mendicanti e, insomma, tutta l’organizzazione ecclesiastica, ma anche nodi irrisolti della vita civile, a esempio l’assistenza ai poveri, la riforma degli studi universitari, la fondazione di scuole per tutti (maschi e femmine!). Il titolo completo dell’opera è: Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca, per il miglioramento della condizione cristiana. Si trattava insomma di riforme possibili, che egli considerava appunto di “miglioramento”: per Lutero la società civile non poteva aspirare a essere il Regno dei cieli realizzato in terra, ma un sistema da adattare volta a volta secondo le necessità, e sotto la guida di chi legittimamente detiene il potere politico, cioè, all’epoca, quelli cui lui si rivolge col nome di “nobiltà” (principi, imperatore, ma anche i Consigli delle città libere dell’impero). Essi sono, ovviamente, tutti “cristiani” (che altro potevano essere, nel Cinquecento?), e in particolare sono quelli «di nazione tedesca»; dove “nazione” è termine che non ha il significato a noi familiare (dopo lo sviluppo – e la crisi – dello Stato moderno), bensì quello di individuare i rappresentanti dei popoli tedeschi nella Dieta dell’Impero: in altre parole, le autorità del territorio in cui Lutero viveva e lavorava». 

– Un’esigenza pratica, quindi, ma con motivazioni ben più profonde…

«Se da un punto di vista pratico – e, direi, politico e sociale – le proposte di Lutero restano adeguate alla sua epoca (e, infatti, egli non attribuiva loro nessun valore eterno), ciò che rimane decisivo è appunto questo: per rispondere alle critiche di tipo morale, che da decenni erano rivolte da più parti, senza successo, alla condizione della chiesa, egli partiva da un presupposto teologico, questo sì rivoluzionario, e cioè che i “laici” hanno lo stesso ius del “clero”. In altre parole, quella di Lutero non fu una riforma morale, ma una riforma teologica».

– Dall’ultimo di questi tre scritti promana un nuovo significato da dare all’idea di libertà: in che senso?

«La stessa riflessione può essere fatta a proposito della libertà. In un piccolo libro, di facile e anzi appassionante lettura, dedicato paradossalmente proprio a quel papa Leone X che lo stava scomunicando, Lutero mise in moto un nuovo modo di intendere l’etica cristiana: non più una serie di precetti, stabiliti dalla gerarchia ecclesiastica e finalizzati a procurare la salvezza personale di chi li mette in pratica, ma l’assunzione della responsabilità di ciascuno nei confronti dei bisogni del prossimo. Le opere “buone” sono liberate dalla finalizzazione egoistica della salvezza, per essere decise e realizzate in vista del bene degli altri. Come sappiamo, questa “etica della responsabilità” cambiò per secoli la vita di intere società dell’Occidente cristiano. Ma Lutero nel 1520 non lo poteva sapere, e, soprattutto, ciò che per lui contava era il fondamento teologico di questa ricaduta sociale: le opere sono “libere” perché è Cristo che ha già liberato chi crede in lui, senza bisogno di dimostrarlo attraverso le opere, gratuitamente». 

(In italiano queste opere sono inserite nella collana «Opere scelte»: Alla nobiltà cristiana, a c. di Paolo Ricca, 2008; La cattività babilonese della Chiesa, a c. di Fulvio Ferrario e Giacomo Quartino, 2005; La libertà del cristiano, a c. di P. Ricca, 2005).