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Clandestini e cinghiali

«In prima pagina nell’edizione di ieri, Libero è uscito con un titolo che non possiamo non commentare – si legge sul sito carta di Roma, il protocollo deontologico concernente richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti -: “Accogliamo i clandestini, uccidiamo i cinghiali”. Non c’è nessuna possibilità di fraintendimento. Il giornale, diretto da Pietro Senaldi, mette sullo stesso piano esseri umani e cinghiali e pone al lettore un interrogativo implicito su cosa sia più opportuno scegliere. E nulla cambia se il contenuto dell’articolo non fa alcun accenno al parallelo. Anzi, rende tutto più grave e grottesco, quando racconta che “la sicurezza nelle aree rurali e urbane è in pericolo per il loro proliferare con l’invasione di campi coltivati e centri abitati dove spesso razzolano tra i rifiuti con evidenti rischi di carattere sanitario per la diffusione di malattie come la peste suina”». 

L’appello alla responsabilità e al rispetto della deontologia professionale è uscito immediatamente sul sito della Carta di Roma (associazione che vede tra i soci fondatori la Federazione delle chiese evangeliche in Italia e membro del consiglio direttivo) e dell’Unar a firma del presidente di Carta di Roma, Valerio Cataldi e di Triantafillos Loukarelis, il direttore dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali.

Clandestino. 

I giudici della Corte d’appello di Milano, già lo scorso febbraio 2020, sancirono inequivocabilmente che l’utilizzo del termine clandestino «è discriminatorio nel caso in cui ci si riferisca a delle persone che hanno fatto richiesta di protezione umanitaria». Ben inteso, nessuno è immune a possibili errori: anche il quotidiano la Repubblica il 3 settembre del 2018 uscì con un titolo nel quale si faceva riferimento al termine clandestino in prima pagina: «In tre mesi oltre 12 mila clandestini in più». 

Il termine clandestino, però, ricorda la Carta di Roma che mette a disposizione un glossario utile «è un termine sbagliato, perché contiene un giudizio negativo aprioristico; suggerisce l’idea che il migrante agisca al buio, di nascosto, come un malfattore. È un termine giuridicamente sbagliato per definire chi tenta di raggiungere l’Europa e non ha ancora avuto la possibilità di fare richiesta di protezione internazionale, e chi invece ha fatto la richiesta ed è in attesa di una risposta (i migranti / richiedenti asilo); ed è un termine giuridicamente sbagliato anche per definire chi ha visto rifiutata la richiesta d’asilo e ogni altra forma di protezione (gli irregolari).

Ma, soprattutto, il termine clandestino è una delle colonne portanti dei discorsi di odio, dell’hate speech; è uno strumento della cattiva politica, un termine usato dalla «propaganda della paura», per conferire un distintivo al possibile «nemico», per seminare odio, o per sollecitare una possibile reazione di rifiuto, che spesso, purtroppo, si trasforma poi in violenza.

Proprio per evitare l’utilizzo di termini inappropriati in tema di migrazioni è nato il codice deontologico, la Carta di Roma per offrire a colleghi giornalisti gli strumenti utili da consultare e norme etiche da rispettare.

È un termine che sostiene la teoria secondo la quale «l’immigrazione è essenzialmente un problema di ordine pubblico e di sicurezza, mentre le statistiche ci raccontano una realtà molto diversa con la diminuzione costante da anni del numero dei reati commessi nel nostro paese, e la cronaca ci racconta che i migranti piuttosto che al buio e di nascosto, vivono e muoiono sotto al sole dei campi nei quali vengono sfruttati».

La parola «clandestino», dunque, andrebbe cancellata dal linguaggio giornalistico «perché produce una percezione distorta del fenomeno migratorio».

«C’è un limite oltre il quale non è consentito andare. Questo limite ieri è stato superato» proseguono Cataldi e Loukarelis.

«Già, perché – ricordano ancora il presidente della Carta di Roma e il direttore dell’Unar – questo titolo viola le più elementari regole del giornalismo, dell’etica professionale, delle carte deontologiche».