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La gioia degli altri

Può l’odio scatenato dall’invidia armare la mano di un uomo fino all’omicidio? Un recente fatto di cronaca racconta proprio questa storia: l’assassino ha ucciso una coppia di conoscenti perché avevano, a suo dire, una vita troppo felice. Lascia attoniti questa incapacità di apprezzare la gioia altrui e, ancor di più, sgomenta la rabbia che arriva a desiderare la sofferenza dell’altro. Eppure l’invidia è una passione così pervasiva e pericolosa che la Scrittura ne parla diffusamente. L’amore per Dio, l’amore per la vita, l’amore per l’altro, intrecci e nodi di tutti i racconti biblici, sono costantemente messi in pericolo da impulsi distruttivi, dall’eccessivo amore di sé e dalla marcata attitudine dell’essere umano a ripiegarsi su sé stesso, stritolato dal desiderio narcisistico di soddisfare aspettative tutte personali. Se l’io è al primo posto, l’altro diventa un avversario, un ostacolo all’ottenimento di ciò che si crede di meritare.

Se l’altro è un rivale nella corsa verso la felicità, tutto ciò che egli ottiene è qualcosa che si percepisce come ingiustamente sottratto a sé stessi. «Non desiderare alcuna cosa del tuo prossimo» getta una luce di pesante giudizio contro il sentimento rancoroso dell’invidia. Lo shalom di Dio, che Gesù manda i suoi discepoli ad annunciare nelle case come segno della regalità di Dio sul mondo, è minacciato dalle stesse persone cui la benedizione è destinata. 

Si può desiderare di aprire la porta e accogliere l’annuncio del Regno come “figli della pace”, oppure si può lasciar entrare il peccato nella propria casa e lasciarsi dominare dai suoi desideri come decide di fare Caino. Il peccato, descrive plasticamente il racconto, è accucciato davanti alla porta di Caino. Si potrebbe leggerlo così: per poter uscire dall’invidia che lo tormenta Caino dovrebbe fare lo sforzo di scavalcarla e lasciarsela alle spalle. Ma non può, e forse neanche vuole, gioire della gioia di Abele, e un’invidia ossessiva e violenta diventa sua ospite. L’invidia è un’afflizione dell’animo che porta alla cecità perché non si vuole vedere l’altro nella sua verità di persona che vive attraversando gioie e dolori, successi e sconfitte esattamente come capita a tutte a tutti.

Lo sguardo invidioso contorce la relazione con l’altro tramutandola in sfida a chi vale o possiede di più. «L’erba del vicino è sempre più verde» è un proverbio che fa sorridere, ma dice dell’inquietudine e del risentimento che si prova quando si crede che ciò che l’altro ha sminuisca quello che ho io. Una parabola di Gesù ci aiuta a capire ancora meglio la dinamica di questa passione cupa: l’invidia nasce da una doppia cecità, non solo quella che impedisce di vedere e accettare l’altro nella sua naturale e costitutiva alterità, ma anche quella, forse più dolente, di non riuscire a vedere sé stessi con fiducia in ciò che si è e ciò che si ha. 

All’inizio del racconto del “figlio prodigo” il personaggio del padre, per acconsentire alla richiesta del figlio minore, dà a entrambi i figli la parte di beni che spetta loro. Potremmo dire, li rende ricchi esattamente in egual modo. Eppure, quando il fratello “prodigo” fa ritorno a casa perché non ha più di che vivere, il fratello maggiore viene colto dall’ira e dall’invidia per l’accoglienza festosa che il padre sta organizzando per chi si è comportato in modo tanto vergognoso. Si sente offeso e trascurato. E forse la rassicurazione del padre che, di fronte alla sua amarezza rabbiosa, gli fa notare: «figliolo tu sei sempre con me e ogni cosa mia è tua», cade nel vuoto. Cade nel vuoto perché il ragazzo è ossessivamente intento a calcolare come perdita personale tutto ciò che viene offerto al fratello. Non sa più vedere ciò che ha e che ha sempre avuto. È irosamente scontento di sé.

Ecco la seconda forma di cecità che genera l’invidia: non riuscire a percepire sé stessi con occhio equanime. Si può aggiungere un’annotazione conclusiva all’analisi del tema affrontato dalla parabola. La grande assente del racconto è la gratitudine, sentimento impedito dalla cecità verso sé stessi che genera l’invidia. La gratitudine sboccia, infatti, unicamente dalla consapevolezza che, comunque vadano le cose, si è ricevuto tanto. Ognuno, nel suo intimo, sa quanto e che cosa.

Disporsi alla gratitudine cambia la ragione secondo cui si compiono le scelte piccole e grandi della vita. La conclusione della parabola consiste proprio in una scelta da fare. Non viene detto al lettore se il figlio maggiore decide di partecipare alla festa. La parabola ha un finale aperto. Preferisce non rivelare la scelta per il sì o per il no, perché, in realtà, la domanda è posta a chi ascolta la storia. La gratitudine o l’invidia è affare nostro.

Immagine, Pieter Brueghel: i 7 peccati capitali, l’invidia, 1558